Claudio Baglioni: "In questa storia che è la mia" tutto è cominciato a Milano

Baglioni, l’ultimo disco, la sua vita: fine anni 60, il mio Big Bang, partii da Roma per un provino alla Ricordi

Claudio Baglioni

Claudio Baglioni

Milano, 16 gennaio 2021 - Nostalgie di un’ex “bufera di capelli”. “Ho attraversato gli anni e le stagioni / e ho contato il tempo a patto che / non invecchiasse queste mie canzoni / ma portasse il conto solo a me”, canta il grigio ma non domo Claudio Baglioni nella sua ultima fatica discografica “In questa storia che è la mia”. Aspirazione che si porta dietro fin da quello che definisce il suo “Big Bang” milanese. "Fine anni Sessanta: non ero ancora maggiorenne", ricorda. "Vengo su per un provino per la Ricordi. Oggi sembra tutto facile: sali sull’alta velocità e in meno di tre ore sei qui. Allora ce ne vollero più di sette. Senza contare il tempo per arrivare da casa alla stazione Termini. Tanto per dare l’idea: abitavamo in periferia e, quando mia mamma mi voleva portare in centro, diceva: “vestiti, che andiamo a Roma!”".

Che Milano trovò? "Sembrava un altro mondo. E lo era. Mi fece un’impressione incredibile. Ogni volta che scendo in Centrale, la rivedo con gli occhi di allora: grande, vitale, velocissima… Avremmo dovuto registrare tra canzoni, ma ne realizzammo solo una: “Annabel Lee”, un brano ispirato a una famosa poesia di Edgar Allan Poe. Credo ci sia ancora una “lacca” in qualche archivio".

E le altre due? "Non sono mai state pubblicate. Una s’intitolava “Interludio”: una specie di contrappunto alla “Patetica” di Beethoven. L’idea me l’avevano data i Procol Harum, gruppo inglese che scriveva brani straordinari, ispirati a grandi temi classici, della terza canzone (“Se la ragazza che avevi”) ero solo un interprete, perché scritta da un mio amico chitarrista. I musicisti che mi dovevano accompagnare erano, per usare un eufemismo, svogliati. Le mie canzoni non gli piacevano. E io ancora meno di loro. Il colpo fu durissimo. Giurai che non sarebbe finita lì: avrei dimostrato a tutti chi ero...".

Il resto è noto. "Il contratto arrivò, ma con la Rca. E, visto che ero minorenne, lo firmò mio papà. Un contratto discografico, allora, era come arrivare primi in classifica. Un passo grandissimo, che impegnava tutta la famiglia. Una specie di investitura: “Coraggio, figliuolo: fatti onore!”. Se non fosse stato per Milano, credo che non avrei mai trovato il coraggio e la grinta di fare quel passo. E la mia vita avrebbe preso tutt’altra piega. Anche se non riesco davvero a immaginare quale".

Tornando al testo della recente “Uomo di varie età”, pensa che gli anni abbiano presentato il conto a qualche sua canzone? "Non tutte hanno il passaporto del tempo. Alcune possono essere suonate come allora, anzi l’ala conservatrice del pubblico si offende quando l’autore si permette di fare i baffi al suo stesso manifesto piegandole a sonorità diverse. Basta ricordarsi le polemiche piovute per questo sul povero Dylan. Arte e bellezza posso anche permettere rielaborazioni, ma cronaca, storia e, soprattutto, memoria, si oppongono".

Un rammarico? "Quello che mi porterò dietro fino alla fine dei giorni è aver deciso ad un certo punto della carriera quali fossero i 30-40 brani che formavano l’ossatura dei miei spettacoli abbandonando, o quasi, gli altri 400 che riscopro solo nei raduni dei fan. Visto, però, che questa tendenza a proporre dal vivo l’antologia di noi stessi è un vizio condiviso da quasi tutti i colleghi, mal comune mezzo… Claudio".  

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