
di Giovanni Chiodini
Nei mesi scorsi c’era stata la fila all’esterno della Marobe, impresa di abbigliamento a conduzione familiare: diverse centinaia di persone che cercavano un posto di lavoro erano in coda a presentare la domanda di assunzione. In pieno lockdown l’azienda di Christian Cagnola aveva avuto l’opportunità di riconvertire la propria produzione. Dalla maglieria tradizionale, che assicurava un posto di lavoro ad una ventina di persone, alle mascherine in uso negli ospedali e dall’utenza privata per fronteggiare l’emergenza sanitaria. Per garantire la produzione richiesta espressamente alla Marobe (174 milioni di mascherine chirurgiche monouso, per un importo complessivo di 81,69 milioni di euro) dal commissario straordinario per l’emergenza Domenica Arcuri, l’associazione temporanea di impresa costituita fra Triboo Digitale di Giulio Corno e Marobe ha dovuto assumere più di 200 persone scegliendo in particolare tra la manodopera giovane, e ha predisposto anche nuovi spazi per collocare le macchine e i magazzini nel sito produttivo di Vanzaghello.
Oggi, dopo alcuni mesi in cui dalla Marobe sono uscite migliaia di mascherine, tutte queste persone sono in cassa integrazione. Inizialmente se ne producevano 360mila al giorno ma negli obiettivi della Marobe si sarebbe dovuti arrivare a produrre un milione. La produzione di tutti questi presidi di protezione marcati CE si è fermata all’improvviso alla metà del mese scorso, mentre prosegue l’attività tradizionale dell’azienda. Alcune voci, che non trovano comunque conferma negli ambienti aziendali, dicono che il blocco sia stato generato dall’esito negativo di alcuni test eseguiti sulle mascherine. Ma è solo una ipotesi. "Ancora non abbiamo capito cosa realmente sia successo per motivare il blocco della produzione di camici e mascherine. Non sappiamo chi ha la colpa per questo stop, se l’azienda o se il committente - afferma Vito Zagaria, sindacalista della Cisl -. Non mettiamo nessuno sotto processo ma costatiamo che tutto si è improvvisamente fermato e resta il fatto drammatico che questi 246 lavoratori, che erano stati assunti con un contratto a tempo sino alla fine di novembre, oggi sono a casa senza, al momento, alcuna prospettiva di riassunzione". Per questi lavoratori, assunti dopo l’entrata in vigore del decreto che assegnava la cassa integrazione a chi, per il Covid, aveva perso il posto di lavoro, le garanzie sono incerte.
"Abbiamo richiesto la cassa per evento imprevisto ed improvviso ma ancora dalla Regione non abbiamo avuto una risposta. Ad agosto, del resto, i tempi sono notoriamente diluiti. Vedremo prima della fine del mese cosa si potrà ottenere" osserva Zagaria. "Siamo curiosi di capire se ad oggi, passata l’emergenza, verranno comunque confermati i quantitativi di mascherine previste dalla concessione o se ne serviranno molte meno". I lavoratori assunti a tempo determinato dalla Marobe, che sono stati invitati dall’azienda a considerarsi in ferie, hanno firmato una lettera di messa a disposizione, con la quale si rendono disponibili a lavorare, quale premessa dell’immediato reimpiego nel caso di richiesta del datore di lavoro. In pieno lockdown il commissario Domenico Arcuri aveva sottoscritto contratti con cinque aziende per la produzione di 660 milioni di mascherine chirurgiche al prezzo di 0,38 centesimi l’una. Le aziende interessate, tra cui appunto la Marobe, non avrebbero potuto vendere le mascherine a più di 0,50 centesimi.