
di Elvio Giudici
“Eppur si muove”: la celebre frase di Galileo, nel caso della Scala andrebbe a parer mio alterata in “Alla fine si muove”. Giacché indubbio è che quello internazionalmente indicato come il primo teatro d’opera italiano, sia stato tutt’altro che all’avanguardia nel reagire con progetti innovativi o anche solo coraggiosi alla situazione attuale. Certo, dopo che il festival donizettiano di Bergamo aveva allestito in tre sere di seguito due opere in scena e una in forma di concerto, tutte senza pubblico e in streaming, la Scala aveva progettato
due opere in concerto e la ripresa dell’eterna Bohème zeffirelliana in scena, come prova generale per la Lucia inaugurale. Poi, trovatasi con metà coro positivo al Covid dopo l’Aida, la paura ha prevalso: e mentre Firenze mandava in scena Otello, i teatri emiliani s’organizzavano con loro spettacoli, Roma proponeva un Barbiere come film, e film-capolavoro (tutti in streaming senza pubblico, beninteso; ma c’era comunque lo spettacolo), la Scala inaugurava col noto concerto di pezzulli operistici seguito poi da qualche sparuto concerto. Ora, finalmente, l’elefante si muove: il più noto teatro d’opera italiano torna il 23 prossimo, dopo undici mesi esatti, a fare un’opera. Sarà il mozartiano Così fan tutte. Nuovo allestimento? Ma quando mai: usato sicuro, con un allestimento firmato Michael Hampe e andato in scena a Salisburgo nel remotissimo 1983 poi portato anche alla Scala. Se visivamente sarà un Mozart che più d’antan difficile sarebbe ipotizzare, musicalmente si può nutrire un filo di speranza: Giovanni Antonini, che due anni fa diresse un magnifico Giulio Cesare di Händel, non è solo un grande barocchista ma anche un ottimo direttore mozartiano, e il cast mescola interpreti già più che solidi (Eleonora Buratto, Alessio Arduini, Pietro Spagnoli) ad altri giovani ma assai interessanti (Emily d’Angelo, Bogdan Volkov, Federica Guida). Per qualcosa di meno scontato, attendere febbraio, quando pare s’allestirà Salome con la regia di Damiano Michieletto, sul podio non più il previsto direttore musicale scaligero - di fatto resosi invisibile dopo il 7 dicembre - bensì il glorioso ottantacinquenne Zubin Mehta. E poi, sempre stando ai si dice e se il coraggio persisterà, un titolo ogni mese navigando a vista tra un DPCM e l’altro. Sempre in streaming, beninteso, in questo caso Rai Cultura. E al riguardo, basta con le solite lagne della musica che si fa davvero solo dal vivo, del suono riprodotto che è come fare sesso con una bambola, eccetera: anche prescindendo dalla pandemia che impone l’ovvia scelta dell’oppure tra “o niente oppure così”, non vedo proprio perché si debba arricciare il naso davanti a iniziative consimili, anziché accoglierle col grato entusiasmo che meritano, e cui finalmente la Scala batte un colpo.