GIAMBATTISTA ANASTASIO
Cronaca

La storia di Rosina Masi Calanna, a 5 anni senza padre né patria: “Eppure ho imparato a dare”

Il papà viene ucciso dopo la fine dell’occupazione italiana di Bastia, lei fugge e vive in più città ma decide di fermarsi a Milano: "Qui ho potuto crescere mio figlio e metterlo sulla giusta via"

Rosina Masi Calanna

Ad appena 5 anni le hanno portato via il padre, le hanno confiscato la casa in cui è nata e l’hanno costretta ad abbandonare la terra sulla quale ha imparato a camminare. Da allora è iniziato un girovagare di città in città, senza che in alcuna abbia potuto riprendersi la sua infanzia. Eppure, quando si chiede a Rosina Calanna Masi quale lezione abbia più a cuore tra quelle che le ha impartito la vita, risponde: "Bisogna imparare a dare, più che a ricevere".

Parole che, d’un tratto, amplificano la sua erre moscia, fino ad allora espressa – mai ostentata – con una naturalezza tale da renderla quasi impercettibile. Così fa anche con le sofferenze che hanno scandito la sua biografia: ne parla con semplicità, senza chiedere ad alcuno di prenderle in mano anche solo per il tempo necessario a rendersi conto di quanto pesino. In fondo e nonostante tutto, la sua è una difesa continua di un unico amore: l’amore per la vita. Per suo figlio ha vissuto, Rosina. Una vocazione non ha mai abbandonato, oltre a quella di madre: prendersi cura dei malati.

Rosina è nata l’1 marzo del 1938 in Corsica, a Bastia, città che fu occupata dagli italiani tra il 1942 e il 1943: una parentesi più che un’occupazione. Ma in quella parentesi rimase prigioniero il destino di un’intera famiglia: i francesi, una volta riconquistata la città, diedero inizio ad un vero e proprio regolamento di conti, ad una caccia all’italiano che costò la vita al papà di Rosina.

Una guerra nella guerra: erano, quelli, gli anni del secondo conflitto mondiale. La madre di Rosina, anch’essa italiana, originaria di Sant’Ilario dello Ionio, in provincia di Reggio Calabria, fu costretta a lasciare la Corsica insieme ai suoi 6 figli. A lei Rosina deve, forse, la sua erre moscia: "Pare che nelle vene di mia mamma – racconta lei – scorresse sangue blu, che fosse di famiglia nobile".

Sua madre, però, appena lasciata Bastia, è soprattutto una donna sola. "Io e le mie sorelle fummo portate in un collegio a Chianciano (in provincia di Siena ndr): qui restammo 5 anni, il tempo delle scuole. Di bello c’era solo che io e le mie sorelle eravamo tutte insieme nello stesso posto".

Fosse stato per Rosina l’esperienza in collegio sarebbe finita prima: "Un giorno, al secondo anno, provai a scappare. Ma non andai molto lontano, mi rintracciarono già in stazione". "Avrei voluto raggiungere mia mamma a Sant’Ilario" ricorda lei, stringendosi nelle spalle, facendosi un po’ più piccola su quel divano dove, insieme a lei, siedono bambole antiche: "Queste? Sì, mi piacciono molto. Indovini chi me le ha regalate?". Insieme alla domanda spalanca un sorriso. Il silenzio dura un attimo: "Mia sorella Irene me le ha regalate".

Quella sorella alla quale Rosina è sempre stata particolarmente legata. Quella sorella che finisce per essere una prova del fatto che nel sangue di famiglia – blu o rosso che sia – scorre la predisposizione a prendersi cura degli altri: "Irene ad un certo punto ha deciso di farsi suora – racconta Rosina –. Ha riempito mio figlio di regali e attenzioni. E faceva altrettanto con i ragazzi che, per varie ragioni, per un vissuto problematico, vivevano in comunità o negli istituti. Quando andava a trovarli, regalava tanto a tutti. “Arriva la suora, arriva la suora!“ così urlavano quei ragazzi, quando la vedevano arrivare".

Quanto a Rosina, è a Torino che scopre la sua predisposizione a mettersi al servizio del prossimo. In Piemonte arriva dopo gli anni del collegio a Chianciano e dopo alcuni anni a Roma, da un’altra sorella, Pinuccia stavolta. "Curavo i miei nipoti – spiega – perché mia sorella doveva andare a lavorare". Torino, allora. "Ci arrivai a 16 anni, trovai un convitto: studiavo e mi prendevo cura dei malati. Ho imparato tanto in quegli anni e anche in seguito non ho mai smessi di assistere amici e conoscenti che avessero bisogno".

Nel petto , però, inizia a batterle la voglia di approdare a Milano. Il suo destino sembra ormai girovago: "Volevo conoscere questa città. Mi attirava, non so il motivo". Oggi sa, invece, perché proprio a Milano ha deciso di fermarsi: "Qui mi è stato possibile far crescere mio figlio e rimetterlo sulla giusta strada quando vi ha deviato". L’uomo col quale lo ha avuto si chiamava Giuseppe: "Si era spacciato per un rappresentante di moda – racconta Rosina –, col tempo ho scoperto che, invece, era un malvivente, che aveva affari poco leciti, gravitava intorno a Vallanzasca e alla sua banda. Così mi sono rifiutata di sposarlo e lui ha provato a portarmi via il bambino, a rapirlo". Invano. Quell’uomo non sapeva ancora che Rosina avrebbe vissuto per quel piccolo.

Il matrimonio arriverà qualche anno più tardi. Ma non sarà felice: "Dal malvivente passai ad un vigile urbano. Ma col vizio dell’alcol. Decisi di separarmi, con tutto quello che questo comportava: nella vita bisogna avere pazienza ma anche fiducia in se stessi". Nessun rimpianto per Rosina. Anzi sì, uno c’è: "Vorrei avere ancora con me il cavallo a dondolo che mi regalò papà quando era bambina". Rimase a Bastia, quel cavallo a dondolo: "Scappammo in fretta e furia, non riuscimmo a prendere nemmeno i documenti". Rimase in quella casa confiscata, dietro una porta chiusa a chiave. Proprio come l’infanzia di Rosina.