DIEMILIO MAGNI
Cronaca

Quelle osterie tra mala, cantastorie e buon cuore

Giancarlo Peroncini “Pelé“: c’erano balord e lader ma anche quel cliente che mi prestò 700mila senza volere nulla in cambio"

di Emilio Magni

Sono andato recentemente all’Abbazia di Chiaravalle per una di quelle visite cosiddette culturali che per i vecchi come me servono più per ammazzare il tempo che altro. Però portano qualche ricordo. Guardando per i filari di alberi, i prati ancora verdi e le rogge mi è tornata in mente la mitica osteria delle “Tre Fontane”, che, in anni lontani, apriva lungo la lunghissima via Vaiano Valle diretta proprio a Chiaravalle. Mi sono infilato per questa strada tra i prati per cercare qualche sopravvivenza delle “Tre Fontane”. Non l’ho trovata ma i ricordi sono venuti giù come una cascata. Mi sono ricordato che a inventarla, fu un grande personaggio della Milano dei tempi dei “ligera”: Giancarlo Peroncini detto “Pelè”, oste e cantastorie. Lui si che l’ho trovato. E’ quasi vecchio come me ed è uno degli ultimi, forse l’ultimo, dei testimoni di quell’inebriante tempo “di storie e di canzoni di osteria, della malavita e della nostaglia”, come è scritto sulla copertina di un libretto che qualche anno fa gli hanno dedicato. “Pelé”, vive ora con la dolce moglie Rosanna, in una vecchia casa di ringhiera a Rozzano, lambita dal Naviglio.

“Milanesun” Doc, Giancarlo Peroncini già da ragazzo vagava nelle osterie della “mala”. La più ruggente era la “Briosca” che apriva in via Ascanio Sforza dove ancora scorre il Naviglio Pavese. “Patron” della “Briosca” era Luciano Sada detto “Pinza”. Aveva mani come pinze, così forti da piegare i coperchietti di metallo delle bibite. Racconta Pelè : "In di usterii de la “mala” gh’era denter de tutt: lader, balurd, avucatt, artista, sciuri, putann, illustri personaggi, contrabbandieri". Peroncini detto Pelè ("Perché giugavi ben al balun"), ha anche lavorato. Mise assieme qualche soldo e firmando tante cambiali aprì “Le tre fontane”, giù verso Chiaravalle dove sgorgavano tre sorgenti. Però, qualcuno, forse Svampa, “impose” al Pelè di chiamare “Gainoteca”, la sua osteria: in omaggio alla liturgia pagana del “buon bere”, tra fumi di sigarette, e profumi di cibi gustosi, come “el risott giald”, il “risotto milanese”, puzza di muffe: il rito era sempre assai celebrato. Quando uno era ciucco spianato, il dialetto meneghino lo definiva “in gaina”. Era qui dove i “balurd” e “lader” raccontavano un po’ incazzati, per metà ilari, storie come questa: "L’altra domeniga matina em decis, mi e el Sandrin, de andà a dac un’ugiàda al negozi de scarp del via Jenner". Con il Sandrino avevano pensato di compiere un furto nella calzoleria di via Jenner. A un certo punto però, mentre erano dentro, hanno sentito le sirene della “pula” avvicinarsi, allora hanno mollato la presa e sono usciti di corsa mentre già si vedevano i lampeggianti. Lungo la strada c’era però gente che correva e anche loro si sono infilati dentro il gruppo. Stava passando la “Stramilano”. Tra tanta gente che scarpinava veloce, i poliziotti rimasero disorientati. "E inscì l’em fada franca", commentavano ridendo. Peroncini racconta che in “Gainoteca” si sedeva anche gente importante come Teo Teocoli, Renato Pozzetto, Walter Valdi, Svampa. Fuori delle osterie della “mala” stazionavano anche ragazzini i quali quando vedevano arrivare la “pula” o i “caramba”, irrompevano a dare l’allarme.

Di quei tempi “el Pelè” ha pure una storia toccante, di quell’amicizia, di quel “buon cuore” “che gh’eren dumà in chi ambient chi”. La vita era dura e a un certo punto Peroncini non aveva 700mila lire per pagare l’Iva. Rischiava di chiudere: "Devo ringraziare ancora un amico cliente che gli piaceva da matti venire in “Gainoteca”, Daniele Carlotti, il quale decise di prestarmi le 700mila, così: sulla parola. Un gran bravo uomo. Faceva i tatuaggi, fu il primo tatuatore di Milano. Quindici giorni dopo glieli restituii e non volle gli interessi. Volevo offrirgli da mangiare, da bere: niente. C’era anche di questa bella gente tra di noi. Lo ringrazio ancora adesso". "Se arrivava un medicante, gli davamo da mangiare: come fosse in famiglia". Quando nelle osterie la “bala” era già su di giri la congrega degli ebbri attavolati davanti alle tovaglie di cerata a quadrettoni colorati e a falangi di bicchieri semivuoti, si alzavano cantori solitari, o in coro, mentre compari suonavano. “El Pelé” suonava (lo suona ancora e canta ancora in dialetto) in rustici ma vibranti concertini, il “tollofono” . "Se l’è?". E’ uno strumento fatto con una “tolla” delle conserve di pomodoro, con attaccato un manico di scopa, al quale erano legate funi d’acciaio per stendere i panni. Erano queste che suonano divinamente. Davamo spettacoli. Celebri erano anche i “pranzètt” con il risotto alla milanese, “el risott cun l’unda” e la frittata di cipolle: "Per chi non era tanto in “grana”".