Quando la montagna è poesia

Andrea

Maietti

Come può nascere l’amor di montagna nei bassaioli che noi siamo? Il paesaggio della pianura è comprensibile: la sua voce ha toni domestici, il suo dio parla dialetto. Il paesaggio della montagna non ha confini, la sua voce spaura, il suo dio è vertiginoso silenzio. La quota più alta da me mai toccata sono i 1.750 metri del Penegal, sopra il passo della Mendola. Ci sono stato trascinato un giorno da amici burloni, cui era ben noto il mio trepido cuore di tenace terricolo. Arrivati in cima, da un terrazzo a strapiombo si poteva contemplare il disteso fulgore delle Dolomiti: un inno d’oro vagamente sospeso nell’incenso di una lieve nebbia vespertina.

Da una parte una sorta di religioso stupore, dall’altra la ricerca affannosa di un appiglio per reggere la vertigine. Da allora nessuna vetta mi ha più tentato. Mi sono detto che chi cerca la montagna è spirito inquieto, roso dal tarlo faustiano di andare “più in là”. Ho capito perché non c’è tradizione di cori di pianura paragonabile a quella dei cori di montagna. Di fronte allo sgomento dell’infinito il canto corale è momento di umana catena. La pianura ispira più immediatamente il lavoro: tempo per cantare ne resta poco. La poesia della montagna contro la prosa della pianura.

E la prosa può anche venire in uggia. Ecco perché può capitare che anche i bassaioli cerchino la montagna.

Ma una volta arrivati in alto, li pungerà nostalgia della bassa pianura appena lasciata.

Perché, come dice Kierkegaard, anche la prosa ha una sua nascosta più sottile poesia.

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