"Quando i miliardari finirono in carcere"

I ricordi dello psicologo che lavorava nel servizio di prevenzione a San Vittore: con Cusani creammo un gruppo, portava vip e cantanti

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di Andrea Gianni

"Erano comprensibilmente spaesati, entravano in carcere in giacca e cravatta. Ricordo uno di loro che, alla mia domanda, rispose che per mestiere costruiva ponti in Giappone". Lo psicologo Angelo Aparo lavorava nel servizio allestito dal carcere di San Vittore per prevenire i suicidi quando, nei primi anni ‘90, politici e "miliardari" entrarono nei penitenziari. Era l’epoca di Mani pulite, delle inchieste che presero il via con l’arresto dell’allora presidente del Pio Albergo Trivulzio Mario Chiesa, il 17 febbraio di trent’anni fa. Uno di loro, Sergio Cusani, agli arresti per la maxi-tangente Enimont, partecipò dal settembre 1997 al primo Gruppo della Trasgressione, un’iniziativa creata da Aparo per il recupero dei detenuti attraverso l’auto-percezione delle proprie responsabilità, ancora attiva a Opera, Bollate e San Vittore. Condivideva il percorso con 19 persone finite in cella per rapine, spaccio, criminalità organizzata o comune. Nel gruppo c’era anche un avvocato, in carcere per reati legati alla sua professione, che aveva il compito di verbalizzare ogni incontro. Le provenienze più diverse, legate da un percorso che da allora Aparo, una vita professionale trascorsa nelle carceri, continua a portare avanti, anche attraverso incontri con vittime di reati violenti e ragazzi delle scuole. Nel corso degli anni hanno fatto parte del gruppo ergastolani, sicari delle cosche, uomini condannati per omicidi e altri reati gravissimi che hanno scelto di affrontare una strada diversa.

"Con Sergio Cusani il gruppo decollò – ricorda Aparo – perché con la sua influenza era in grado di coinvolgere e portare in visita in carcere politici, giornalisti e personaggi del mondo dello spettacolo. Il nostro mondo nascosto finiva sotto i riflettori. Ricordo Ornella Vanoni e Roberto Vecchioni, Enzo Biagi e Fabio Fazio, Enzo Jannacci e Piero Chiambretti, solo per citare alcuni nomi". Presenze inedite nelle carceri, così come quelle (prima degli anni ‘90 più sporadiche) di detenuti "appartenenti alle alte sfere". Aparo vuole sfatare un luogo comune. "Dalla mia esperienza non ci sono mai stati problemi con i detenuti comuni – spiega – anzi si creava una sorta di “maternage”. Per un detenuto comune prendere un miliardario sotto la propria ala protettiva significava aprire le porte a futuri benefici e opportunità, in un meccanismo dettato più che dal buon cuore dalla convenienza. Così un miliardario, che all’inizio viveva il carcere come un incubo, essendo trattato bene arrivava a maturare la convinzione illusoria che i detenuti fossero le persone più buone del mondo. L’esperienza era senza dubbio dolorosa – conclude – per chi non aveva mai conosciuto la reclusione e soprattutto la vergogna nei confronti di figli, parenti e amici. Alcuni si sono suicidati, lo stesso Cusani soffriva. Con lui, anche dopo la scarcerazione, è rimasto un rapporto profondo".

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