
"Quando da Oldani facevo l’umarell Ora col mio Distreat torno a studiare"
di Simona Ballatore
Dal primissimo stage con Davide Oldani all’apertura del suo “Distreat“ sui Navigli, con sette amici. Federico Sordo, 32 anni, è tornato a studiare: è tra i pionieri dell’Its Food and Beverage management, salpato quest’anno all’alberghiero Carlo Porta. Alle spalle ha un diploma al liceo scientifico Bottoni, ma la passione per la cucina, coltivata tra le pareti di casa, già alle superiori si faceva sentire forte. "Inizialmente con esiti disastrosi - sorride - ma stare ai fornelli mi soddisfaceva parecchio".
Cosa scelse di fare dopo la maturità?
"All’inizio mi sono iscritto all’università: Scienze e tecnologie della ristorazione, alla Statale. Ma non sono riuscito a portare avanti gli studi: ho cominciato a lavorare da Oldani, conciliare gli orari non era semplice".
Come andò l’ingaggio?
"Ero andato alla presentazione di un suo libro a Bollate. Tante signore si erano fermate per l’autografo, io ho aspettato il mio turno e gli ho chiesto una dritta: avrei tanto voluto diventare chef, che scuola di cucina mi consigliava?".
La risposta?
"Nessuna. Mi disse di andare a vedere come si lavorava da lui in cucina. Così mi presentai al D’O. Praticamente facevo l’umarell ai cantieri: sbirciavo da fuori. Dopo la terza volta mi disse che si era liberato un posto per uno stage... è stata una combinazione tra la fortuna e il farsi avanti, senza timore".
C’erano altri liceali in cucina?
"Sì, ovviamente anche diplomati degli alberghieri, ma Oldani diceva che noi eravamo tavolozze bianche, più plasmabili. Certo, da formare da zero, ma era una bella sfida".
Vinta. Ora è il suo mestiere.
"Non c’è sabato e domenica, a vent’anni pesa, ma la passione era più forte. Dopo esperienze in giro per l’Italia, sono stato da Sadler, al Ratanà e Da Vittorio. A 27 anni ho aperto il mio locale, con alcuni soci".
La parte più difficile, dall’altra parte del campo?
"Una sfilza di aspetti burocratici e organizzativi, dalla gestione dei dipendenti ai menù. È un lavoro a tutto tondo, che deve tenere conto delle dinamiche umane e personali. Abbiamo cominciato nel gennaio 2019, dopo un anno pieno è arrivato il Covid a stravolgere tutto".
Come avete retto?
"Siamo stati tra i primi a preparare i kit da finire a casa. La nostra cucina non si presta ad essere messa in una scatoletta: davamo le istruzioni per garantire risultati di qualità. Ci siamo difesi bene e ci siamo concentrati sulla comunicazione, per ricordare al mondo che c’eravamo".
La parte più complicata oggi: trovare personale. Crede sia anche questo un effetto collaterale del Covid?
"Confermo, stiamo cercando personale in cucina e si fa fatica. Mancano le nuove leve. Credo che il Covid abbia inciso sì: sono cambiate le esigenze. Spesso si chiede più tempo che soldi. Ed è difficile da garantire perché siamo sempre stati abituati a lavorare con un modello. Avere due turni richiederebbe il 50% del personale in più, che economicamente pesa parecchio. Prima c’era una forte ambizione che ti convinceva a girare l’orologio al contrario e a non guardarlo affatto".
Non lo guarda neppure oggi l’orologio. Ha trovato pure il tempo di tornare sui libri...
"L’apertura del mio locale mi ha permesso di staccarmi e di gestirmi in maniera più autonoma. Inizio alle 10 al lavoro fino alle 14.15, alle 15 corro a lezione fino alle 19, alle 19.30 torno al Distreat fino a mezzanotte".
Ne vale la pena?
"Assolutamente sì. Avevo un background operativo, ho cercato di imparare gli aspetti più gestionali e manageriali da autodidatta. Ma avere un percorso più lineare è utile. Ho trovato questo indirizzo snello, accessibile anche in termini di costi e che serve tantissimo, anche se hai 10 anni di esperienza: mi aiuta a sistemare le idee, imparo cose nuove, mi confronto con professionisti che vengono a tenere le lezioni. Certo, bisogna studiare, e tanto, ma ne vale la pena sì".