GIULIA BONEZZI
Cronaca

Prima della Scala, il regista Livermore dopo il trionfo: "Il mio Attila contro i barbari"

"L'Italia è un grande Paese per i suoi valori di cultura e solidarietà"

'Attila', Prima della Scala: 15 minuti di applausi

Milano, 9 dicembre 2018 - Ha portato alla Scala il più grande ledwall mai montato in un teatro, proiettato flash back nel suo Attila da Novecento distopico per «decodificare» il Verdi giovane nei tempi moderni; tuttavia, dice Davide Livermore, il regista della Prima, questa tecnologia non è fine a se stessa ma «è parte della scenografia», perché «l’opera non è entertainment». Sogna «il cinema» adesso questo regista torinese (ma anche scenografo, sceneggiatore, cantante lirico, scrittore), direttore artistico del Palau de les Arts Reina Sofìa di Valencia, che al Piermarini ha conquistato persino coristi e orchestrali, notoriamente scettici sulle regìe innovative. Oltre ai cantanti, si direbbe osservando come lo salutano Ildar Abdrazakov, cioè Attila, e Saioa Hernàndez, Odabella, alla cena del dopo Scala. Lui si schermisce: «Sono un artista, una povera ballerina di fila, non chiedetemi di parlare di politica». Invece ne parla a lungo, ma senza far nomi. Come nei giorni scorsi non aveva voluto rispondere al sindaco di Cenate Sotto, provincia di Bergamo, che l’aveva accusato preventivamente per una scena «blasfema» («non lo nomino per non fargli pubblicità»).

Ora può dirci perché l’ha modificata, sostituendo una Madonna mandata in frantumi con un vitello d’oro?

«Semplicemente perché non volevo distogliere l’attenzione dalle cose importanti, e l’ho fatto con grande serenità perché il 7 dicembre dev’essere una festa della cultura italiana. Nel libretto si parla di qualcosa che offende il Cielo, e non c’era nulla che rendesse merito al sacro più di mostrare un sacrilegio perché un minuto dopo si scatena la potenza del Cielo. Un sacrilegio punito, questo è il senso di quella scena: la rottura della statua è punita subito con un coro roboante, scritto da Verdi; vuol dire “non permettetevi di mettere le mani sul sacro”, e, potrei aggiungere, “non vi permettete di trattare le opere sacre in maniera sciocca”».

Un messaggio a chi l’ha criticata?

«Piuttosto dovreste spiegare a queste persone cosa significa “iconoclastia”. C’è gente che si offende perché adora un’immagine? Io ho messo in scena Esodo 32, l’adorazione del vitello d’oro, in cui chi ha il culto per l’immagine viene punito. Ma non è mia intenzione giudicare il pubblico: volevo che il 7 dicembre fosse benvenuto anche chi è prevenuto o non sa di cosa parla».

La cultura è un argine ai barbari?

«Non può esistere una cultura di chiusura, altrimenti fai la sagra del peperone, se ti va bene. Per fare cultura bisogna essere aperti a tutte le culture. Poi siamo a Milano, che è stata un crocevia per millenni, non ci vive una persona che non abbia almeno dodici incroci nel suo background... Nell’800 le signore alla Scala indossavano cappellini in solidarietà ai moti rivoluzionari. Sempre, in qualunque momento storico, si possono compiere cose meravigliose: dipende da ciascuno di noi, nella propria vita».

L’arcivescovo di Milano Mario Delpini, nel suo “discorso alla città” per Sant’Ambrogio, ha ammonito sui pericoli del «costruire consenso ingigantendo le paure».

«Ma lo sappiamo che i furbetti della politica s’inventano dei nemici per ottenere un facile consenso: prima erano i comunisti, adesso sono i marocchini, poi cosa, gli alieni? Io non ci casco nel marketing politico. La cultura è militanza perché dice cose diverse, ti obbliga ad alzare il livello perché non hai interlocutori che vivono di like. Magari non è facile da agganciare, ma guardate che quest’Italia c’è. Io vivo a Valencia da sei anni, e di noi dicono attenzione, se smettete di fare gli italiani, di produrre cultura, non avete tanto senso. Perché noi questo sappiamo fare, anche se poi magari valorizziamo più chi vende materassi di un baritono o un tenore. Ma nella nostra storia ci sono anche episodi straordinari. Siamo un grande popolo, e lo siamo per i nostri valori di cultura, solidarietà e accoglienza. Eravamo buoni cristiani».

In che senso?

«Mio nonno era un buon cristiano. Era un maresciallo dei vigili del fuoco, nella caserma di corso Regina Margherita a Torino, aveva nascosto in cantina un tedesco e due partigiani feriti in uno scontro a fuoco. Perché erano tutti figli di Dio. Io non sono un cattolico praticante ma so cos’è Esodo 32, o le lettere di San Paolo, e mi chiedo se chi oggi giura sul Vangelo li conosca. Noi italiani eravamo soldati pessimi perché non ce la facevamo a sparare al prossimo, dovremmo buttare il valore della vita per il valore della pistola se uno mi entra in casa? Come Attila c’insegna, fare i sacrilegi porta malissimo».