
Piero Manzoni
Milano, 30 ottobre 2017 - Sembra una fiction a puntate, il processo che ruota intorno a sette (dubbie) opere di Piero Manzoni, il provocatorio autore delle celebri scatolette di Merda d’artista, scomparso nemmeno trentenne nel lontano ’63 e oggi nell’olimpo dell’arte contemporanea. Adesso a sostegno dell’autenticità di quei lavori spuntano lettere ingiallite dal tempo ma firmate dalla madre di Piero.
Sul banco degli imputati siede l’avvocato bresciano Carlo Pelizzari, da sempre in contatto con galleristi e pittori, che il pm Luigi Luzi accusa di ricettazione, messa in commercio di opere contraffatte e truffa. Il raggirato sarebbe J.G., ricco imprenditore danese appassionato d’arte contemporanea, assistito dagli avvocati Eugenio Losco e Mauro Straini, che acquistò dal legale le opere di Manzoni - quattro Tela grinzata, due Pacco in carta di giornale e una Ovatta a rettangoli - pagandole in blocco 230 mila euro, prezzo di estremo favore. Il problema è che per la Fondazione Manzoni costitutita dagli eredi, fratello e sorella dell’artista, quelle opere sarebbero per l’appunto false. Tesi ribadita anche nel corso dell’ultima udienza del processo, quando il critico d’arte Floriano De Santis, consulente della difesa, ha esibito le lettere di autentica firmate dalla madre di Manzoni, Valeria, suscitando la reazione della curatrice artistica della Fondazione, che ha subito opposto la falsità anche delle firme.
A complicare il giallo, davanti al giudice Monica Amicone sono costituite parte civile (rivendicando la proprietà dei sette lavori) anche moglie e due figlie di Giovanni Schubert, il gallerista ucciso e gettato nei Navigli da un collaboratore ormai sette anni fa, dopo che l’anziana vittima aveva capito che quello s’era appropriato di alcuni quadri della galleria per rivenderli. L’avvocato Pelizzari, che sostiene l’autenticità dei Manzoni esibendo le ingiallite autentiche materne, era stato anche legale di Schubert e perfino ricordato nel suo testamento. Uno dei pochi, fra l’altro, a poter entrare nei locali dove il celebre gallerista custodiva i quadri di sua proprietà e che, dopo l’omicidio-choc, risultarono misteriosamente quasi vuoti.