GABRIELE MORONI
Cronaca

L’orfano di Piazza Fontana: "La verità è nella storia"

Carlo Arnoldi, nella strage del 1969 perse il padre Giovanni a soli 15 anni. Oggi guida l’associazione dei familiari delle vittime: non diedi la mano a Rumor

La famiglia di Giovanni Arnoldi che ha lasciato moglie e due figli

Magherno (Pavia), 17 novembre 2019 - «Mio zio Sergio, il fratello di mia mamma, ha fatto il giro degli ospedali. È arrivato al Fatebenefratelli. C’erano quattro o cinque corpi, qualcuno già coperto con un lenzuolo. Lo zio se ne stava andando quando un inserviente lo ha richiamato: ‘Se cerca Arnoldi è qui’. Ha riconosciuto mio padre dalle scarpe. Le avevano comprate assieme. Oltreché parenti, erano amici». Giovanni Arnoldi ha 42 anni. Abita a Magherno, piccolo centro del Pavese, con la moglie Costantina e i due figli: Carlo ha 15 anni, Pinuccia di anni ne ha solo otto. Fa il commerciante di bestiame. Grande appassionato di cinema, ha realizzato un sogno quando ha aperto in paese una sala, il “Cinema nuovo”. Il pomeriggio del 12 dicembre 1969 non dovrebbe essere nel salone della Banca nazionale dell’Agricoltura a Milano. Non sta molto bene, c’è una fitta nebbia. Verso le tre del pomeriggio riceve la telefonata di un agricoltore di Lodi: sta per chiudere la vendita di una cascina, chiede la sua presenza. Giovanni si mette in macchina di malavoglia e raggiunge Milano.

Carlo Arnoldi abita a Magherno con la sua famiglia. È il presidente dell’Associazione “Piazza Fontana 12 dicembre 1969” che raccoglie i familiari delle vittime. La sua sensibilità di ragazzo ha imprigionato i ricordi e le emozioni. La prima notizia data dal Gazzettino padano parla dello scoppio di una caldaia. La telefonata della questura di Milano a don Valentino Marchesi. Il parroco non si sente di portare la notizia e incarica il medico di famiglia, Aldo Marezzi, che si presenta con la bugia pietosa che Giovanni è fra i feriti. Carlo non può saperlo, ma è già il capofamiglia. È lui a telefonare allo zio Sergio, lui a informare la mamma, stringendola in un abbraccio. «All’obitorio non sarei potuto entrare, ero troppo piccolo. Invece mi sono infilato dietro una delle mie zie. Mio padre era bruciacchiato, sporco di sangue, la gamba sinistra maciullata. È stata l’ultima volta che ho visto mia madre piangere, voleva vedere papà e io gliel’ho impedito. Ricordo i funerali in piazza del Duomo. Il buio. I lampioni accesi. Una pioggerellina fine fine. Quando sento parlare di ‘silenzio rumoroso’ ripenso a quei momenti. Le gente con i cappelli in mano, non un solo applauso davanti ai carri funebri. C’era tanto silenzio che sentivo il rumore dei nostri passi sul selciato, insieme con i singhiozzi di mia sorella. Il presidente del Consiglio era Rumor. In Duomo, quando ha allungato la mano verso di me, istintivamente ho ritirato la mia».

Anni durissimi. Le famiglie si riuniscono, il primo rappresentante è Luigi Passera. La mamma prende la patente a 39 anni, trova impiego alla Galbani di Corteolona, poi nelle lavanderie del Policlinico San Matteo, a Pavia. “Obbliga” Carlo, che vorrebbe lavorare, a diplomarsi all’Itis di Pavia. Carlo diventa operatore e per dieci anni, fino al 1979, manda avanti il cinema che era l’orgoglio del papà. L’odissea dei processi. «Con l’assoluzione di Zorzi, Maggi e Rognoni siamo stati condannati a pagare le spese processuali. Mi sono rivolto al presidente Ciampi e ce le hanno tolte. Almeno quelle, dopo trentasei anni. Il giorno dell’assoluzione, il 3 maggio del 2005, è stato terribile. Ci sentivamo sconfitti. Con Francesca, figlia di Pietro Dendena, ci siamo guardati e ci siamo detti: no, non siamo sconfitti. Abbiamo la verità storica, quella che Freda e Ventura sono stati gli organizzatori. Questa dobbiamo fare conoscere».