
Michele Usuelli
La mobilità sanitaria da fuori regione, prima che la pandemia le imponesse un temporaneo freno, è stata sempre celebrata come un fiore all’occhiello per la Lombardia; una prova dell’"eccellenza" del suo servizio sanitario pubblico-privato, in grado di accumulare crediti annuali superiori ai 700 milioni di euro grazie a un saldo tra ingressi e uscite che nel 2018 era positivo per oltre centomila ricoveri in trasferta. Eppure c’è un’altra faccia della medaglia, spiega Michele Usuelli, consigliere regionale di +Europa nonché neonatologo alla Mangiagalli, all’attivo molte missioni all’estero con Emergency e un mese di volontariato, un anno fa, in un reparto Covid a Crotone. Dove ha visto l’altro capo del filo: "Anziane che mi raccontavano tutte la stessa storia, di trasferte al Nord anche per patologie banali e per le quali esistono centri in Calabria o al più in Puglia". Questo capo del filo, invece, Usuelli lo conosce per esperienza personale, "e per le testimonianze di tanti colleghi, ma è il segreto di Pulcinella". Perché il fatto che tanta gente venga a curarsi in Lombardia non è solo positivo? "Dipende da come funziona il sistema: ogni anno viene definito un “tetto” per i pazienti lombardi che una struttura può curare in regime di servizio sanitario nazionale, e soprattutto il privato convenzionato non ha nessun interesse a superarlo. Ma per i pazienti da fuori regione il tetto non esiste; ecco quindi che l’interesse è attirarne il più possibile, soprattutto nell’ambito della chirurgia specialistica non urgente. In alcune realtà e per alcune specialità si arriva a punte del 60-70% di pazienti “non lombardi”. Il mio discorso non ha alcuna connotazione campanilistica, è un puro dato di fatto". E cosa comporta? "Che se ho un menisco rotto e abito a Milano, per operarmi rischio di aspettare più di una persona che arriva da un’altra regione, perché l’altro gioca in un campionato nel quale non esiste un budget da rispettare alla fine dell’anno. Questo produce anche una distorsione che riguarda i medici, soprattutto in alcune chirurgie dove la maggior parte lavora con un rapporto libero professionale. Ufficialmente non è consentito pagarli a percentuale sulla prestazione, ma è legale corrispondere “premi” o “incentivi” su base annua, e quindi abbiamo chirurghi che fanno pellegrinaggi a caccia di pazienti da fuori regione. Ormai esistono strutture di grandi gruppi convenzionati in varie regioni, soprattutto del Nord; alcuni chirurghi sono arrivati a operare il paziente lombardo in Piemonte, il piemontese in Lombardia... Un gioco delle tre carte che costringe chi abita a un chilometro dall’ospedale a farsi operare a 200 chilometri, dallo stesso chirurgo". Tutto perfettamente legale, ma antieconomico per il servizio sanitario nazionale. "Che paga due volte, perché nelle regioni a forte “migrazione“ restano reparti semivuoti. Ma soprattutto c’è un danno per i pazienti: il Ssn copre le cure ma non i viaggi e i soggiorni. Io sono convinto che vada assolutamente preservata la libertà di scelta di andare a curarsi dove si vuole, ma non esiste libertà senza consapevolezza e la scelta dovrebbe essere accompagnata, “governata” per disinnescare dinamiche generate da una cattiva informazione e da un privato che legittimamente sfrutta i pertugi di guadagno che il sistema permette". Quindi suggerisce di introdurre dei tetti interregionali? "No, il servizio sanitario nazionale deve garantire a tutti le stesse chance. Occorrerebbe un senso di responsabilità e solidarietà tra le Regioni, organizzato dal Ministero della Salute; ad esempio che le Regioni con più potere contrattuale proponessero ai privati di collaborare a pagamento, insieme a strutture pubbliche, a scambi con ospedali delle regioni da cui si scappa, mentre le Regioni più “deboli” e il Governo dovrebbero informare i cittadini che le cure si possono avere con la stessa qualità vicino casa". Nella riforma della sanità che tra meno di una settimana arriverà in aula al Pirellone c’è qualcosa su questo tema? "No, lo evita e invece ripropone un carrozzone regionale per fare quello che i privati fanno benissimo da soli: la promozione del nostro servizio sanitario a livello internazionale. Bisognerebbe ingaggiare loro per attirare anche verso le strutture pubbliche pazienti in grado di pagare da Paesi con una sanità pessima, o con un servizio sanitario basato su assicurazioni; mentre per i più poveri le risorse investite in pochi e scenografici “viaggi della speranza” andrebbero piuttosto destinate a organizzazioni che operano bene in patria e possono seguirli anche dopo l’intervento".