NICOLA PALMA
Cronaca

"Mi hanno portato via soldi, lavoro e famiglia"

Inchiesta della Dda, la storia di uno degli imprenditori ricattati dagli uomini delle ’ndrine: ero diventato la loro gallina dalle uova d’oro

di Nicola Palma

"Nel 2009, e in particolare ricordo che era la mattina del 7 dicembre 2009, si presentavano nei nostri uffici tre persone, di cui uno si presentò come proprietario di una ditta di impianti di climatizzazione nella zona di Lomazzo, con altre due persone che successivamente seppi che erano il signor Ficarra e suo cugino". Mario (nome di fantasia) ricorda benissimo quella data, Sant’Ambrogio di 12 anni fa, perché quel giorno ha segnato per sempre la sua vita, facendolo sprofondare in un baratro da cui non è più riuscito a risalire. Lui è uno degli imprenditori che, secondo le indagini di Squadra mobile e Guardia di Finanza che ieri si sono chiuse con il fermo di 54 persone emesso dall’aggiunto della Dda Alessandra Dolci e dai pm Pasquale Addesso e Sara Ombra, è stato stritolato dalla "forza di intimidazione" della famiglia di ’ndrangheta dei Ficarra, trapiantata dalla Piana di Gioia Tauro alla Lombardia, e in particolare tra le province di Como e Varese.

La storia, raccontata il 10 marzo 2018 da Mario ai carabinieri della stazione di Lomazzo (ai quali ventiquattr’ore prima si era rivolta la moglie per denunciarlo), inizia nel 2008, quando l’uomo, all’epoca agente di commercio con base in uno show room di Desio, conosce casualmente Silvio (altro nome di fantasia): "Fu incaricato di eseguire dei lavori di installazione di un impianto di climatizzazione". I due restano in contatto e pian piano cominciano a parlare di mettersi in affari insieme. Così quando la società trevigiana per cui lavora Mario chiude la sede brianzola, Silvio propone all’amico di trasferirsi nella sua ditta di Rozzano. Nel frattempo, succede qualcosa che né Mario né Silvio possono lontanamente immaginare, ma che li travolgerà come una valanga. Sì, perché nello stesso periodo l’amministratore unico di una srl di Vertemate con Minoprio, che aspetta da Silvio il pagamento di un debito da 90mila euro per una partita di condizionatori mai consegnati, viene agganciato dai Ficarra, in particolare da Daniele, Domenico detto "Corona" e Rocco Marcello: si presentano inizialmente come i titolari di un’agenzia di recuperi crediti, ma nel giro di qualche settimana gettano la maschera, proponendo sempre più insistentemente all’imprenditore di cedergli le quote di maggioranza e costringendolo a fare i nomi di chi gli deve denaro.

Lui resiste, ma una sera, messo alle strette al tavolo di un notissimo ristorante a due passi da piazza Repubblica, parla di Silvio. Il giorno dopo, i Ficarra piombano a Rozzano, ma ci trovano Mario, che nel frattempo non è ancora a capo della ditta poi creata col socio: "O tu o lui i soldi li dovete dare", gli urlano i mafiosi, che in quell’occasione, stando alle testimonianze, rivendicato "le loro origini calabresi e la loro appartenenza alle famiglie Piromalli-Molè". Per Mario è l’inizio della fine: accetta di fare da garante per Silvio (protestato dalla società comasca e quindi inaffidabile per la banche) e di versare 120mila euro in 12 tranche mensili da 10mila euro l’una. Sempre più vicino al crac finanziario, l’uomo finisce nelle mani di un conoscente di Daniele Ficarra, Alessandro Tagliente, che gli presta 20mila euro per poi chiedergliene indietro 60mila. Come uscirne? Ficarra gli propone una soluzione: Mario si vedrà ridurre sensibilmente il suo debito se acquisterà due appartamenti di proprietà di una società di cui è socia la moglie di Tagliente. E il mutuo? Niente paura: c’è un direttore di banca compiacente che lo "agevolerà".

Ormai l’imprenditore è su un piano inclinato e non ha appigli a cui aggrapparsi per non continuare a scivolare: la moglie lo manda via di casa; la sua ditta fallisce; e lui viene condannato per bancarotta fraudolenta. Lui, però, non denuncia mai: prima perché "ho avuto paura di eventuali ritorsioni"; poi perché "tutte le vicissitudini in cui sono incorso mi hanno indotto a subire passivamente tutti gli accadimenti". Al processo, Mario pensa pure di raccontare tutto ai giudici, ma l’avvocato d’ufficio, a suo dire, "mi ha distolto in quanto si sarebbe sollevato un polverone". Oggi fa il magazziniere in un centro scommesse dell’hinterland, non ha più rapporti con la famiglia (le due case comprate per i figli sono state pignorate dal Tribunale di Como per mancato pagamento delle rate del mutuo) e a lungo ha vissuto in macchina. Nella società poi naufragata, Mario aveva investito 200mila euro, "il mio Tfr e i risparmi di una vita, andati in fumo in pochi mesi a causa del comportamento di queste persone senza scrupoli". Per loro, ha messo a verbale, "ero diventato la gallina dalle uova d’oro".