
Maurizia Paradiso
Milano - Maurizia Paradiso gli consegnò quell’assegno di 40mila euro prima di entrare in ospedale per curare una grave malattia, con l’incarico di "far fronte alle necessità urgenti". Emanuele Pagliaro, suo fan e all’epoca autista e collaboratore, lo prese, ma poi non restituì più la somma, nonostante l’attrice gliel’abbia chiesta più volte. Il contenzioso legale, iniziato il 14 gennaio 2016 con la denuncia della sessantasettenne per appropriazione indebita, si è chiuso nei giorni scorsi in Cassazione.
I giudici hanno respinto l’ultimo ricorso dei legali del ventinovenne milanese, rendendo così definitiva la condanna a un anno e quattro mesi di reclusione (con sospensione condizionale della pena) comminata in primo grado dal Tribunale monocratico e confermata dalla Corte d’Appello nel gennaio scorso. La vicenda inizia il 2 marzo 2015, quando Paradiso, sex performer che raggiunse l’apice del successo tra gli anni Ottanta e Novanta con la partecipazione a numerose trasmissioni televisive, consegnò a Pagliaro l’assegno, in vista del suo ricovero all’ospedale San Gerardo di Monza.
Al termine del periodo di degenza, la sessantasettenne chiese la restituzione di quei soldi, "tutti i miei risparmi", senza ottenerla. Il 23 dicembre 2015, Pagliaro firmò un manoscritto in cui si impegnò a pagare, anche se proprio su quel foglio è in corso a Monza un altro processo generato dalla denuncia del ventinovenne contro Paradiso; in sostanza, la difesa sostiene che l’uomo sia stato costretto a mettere nero su bianco l’impegno a ridare la somma e che poi sia stato diffamato pubblicamente dall’ex amica nel corso di un programma tv. "Pagliaro aveva le chiavi di casa mia – le dichiarazioni di Paradiso nel corso del processo di primo grado –. Mi fidavo, ma sono rimasta abbandonata senza una lira per mangiare e per vivere: quei 40mila euro, guadagnati con le mie attività, erano gli unici soldi che avevo messo da parte".
Nel ricorso alla Suprema Corte, l’avvocato di Pagliaro ha elencato diversi motivi che, a suo parere, avrebbero dovuto portare all’annullamento del verdetto d’Appello per violazione di legge e per vizio motivazionale. In primo luogo, la difesa ha contestato il modus operandi del giudice, che diede lettura della sentenza "con motivazione contestuale" aprendo il verbale alle 9.57 e chiudendolo alle 10.02, senza "neppure essersi ritirato in camera di consiglio per deliberare". Un comportamento che la Cassazione ha definito "censurabile" e caratterizzato da "un’evidente forzatura", ma che comunque non ha provocato "alcuna concreta lesione del diritto di difesa".
E ancora : è stata respinta la richiesta di considerare la condotta di Pagliaro come un "mero illecito civile". Così come è stato dichiarato infondato il motivo del ricorso legato al riconoscimento di un rapporto di lavoro tra i due litiganti: per i giudici, si tratta "di una delle tre diverse versioni fornite dall’imputato per giustificare la mancata restituzione del denaro", peraltro smentita da una precedente sentenza della Sezione Lavoro della Cassazione che ha parlato di "natura fiduciaria gratuita e per spirito d’amicizia dell’attività compiuta da Pagliaro in favore della Paradiso".