
Maura Massimino La dottoressa dei bimbi diventa commendatrice per volere dei pazienti
Giambattista
Anastasio
Sto comprando il pesce al mercato, posso richiamare più tardi?": Non è così che avevo immaginato l’inizio di una telefonata con una commendatrice della Repubblica. Ma Maura Massimino è questa. È, innanzitutto, questa capacità di tenere insieme l’alto e il quotidiano. Quando ci risentiamo per fissare un incontro, mi spiega che alla bancarella del mercato c’era fila e temeva di far perdere tempo a tutti se si fosse attardata al telefono: la vista periferica, lo sguardo d’insieme, come un sesto senso, un istinto. "Questo è un premio alla squadra. Niente si raggiunge senza condividere passi avanti e tanti dolori". Sì, "tanti dolori". Perché c’è del calvinismo in lei. E perché Maura Massimino lavora in trincea, lungo la frontiera, è primario del reparto di Oncologia Pediatrica dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano. Un primario che, non si fosse capito, ha appena ricevuto l’onorificenza di commendatrice dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. A chiedere che le fosse riservato tale riconoscimento sono state le famiglie dei suoi pazienti e il Comitato genitori del reparto, guidato da Luca Pellizzer. Nonostante questo, lei di tanto in tanto si sorprende a sognarsi lavavetri. Non smette ancora di sognarsi lavavetri.
Massimino è nata nel 1962 a Carrù, in provincia di Cuneo, il paese del bue grasso e di una fiera che ha 5 secoli di storia. Quando lei arriva a Milano, invece, non ha ancora due anni. "Papà era dirigente della 3M e ci trasferimmo qui per il suo lavoro. È stato lui a rimandarmi l’etica calvinista per la quale le cose belle arrivano solo se te le meriti, possibilmente soffrendo". Ed è lui che le è mancato di più quando ha ricevuto l’onorificenza: "Il mio primo pensiero è stato: peccato non ci sia papà, non poterglielo raccontare. Per lui e per mamma i meriti morali sono più importanti di quelli scientifici".
All’Istituto dei Tumori entra a 25 anni: "Ho scelto io di venire nel reparto di Oncologia Pediatrica, appena laureata. Era il 2 novembre 1987 quando sono entrata qui per la prima volta. Sapevo di volermi occupare di tumori dell’età pediatrica. Poi mi è stato chiesto di occuparmi in particolare dei tumori cerebrali, un po’ perché avevo un curriculum scolastico molto buono e un po’ perché volevano mettermi alla prova". Oggi è stupita di aver ricevuto l’onorificenza per ragioni che, in fondo, non c’entrano col suo curriculum, con le sue pubblicazioni: "Se io avessi dovuto scrivere un faldone su di me, avrei puntato sui risultati scolastici e professionali. E invece mi ha molto stupito ed emozionato apprendere che nel dossier presentato dai pazienti al Quirinale non si fa riferimento a niente di tutto questo. Hanno chiesto che mi fosse data questa onorificenza per la relazione che, a detta loro, ho saputo costruire con i bambini e con i genitori ospiti del reparto. O per aver organizzato momenti come la visita dal Papa. Ecco, mi ha colpito constatare che ai pazienti resta impresso qualcosa di diverso da quello che facciamo come professionisti. Leggendo quel dossier ho realizzato come ognuno di loro si sia costruito un puzzle di me fatto di istantanee spesso relative alla quotidianità della degenza". L’alto e il quotidiano, appunto. L’alto e il quotidiano già da quel 2 novembre 1987. "Quello dei tumori cerebrali, in quegli anni, era un terreno poco fertile, uno di quelli che dispensa poche speranze. Io col tempo ho cercato di fare di questo ambito un giardino, un frutteto. L’aspetto più significativo, all’inizio, era la bassa qualità della vita dei pazienti. Prima di tutto mi sono occupata della loro emarginazione sociale e famigliare. Mi colpiva come tutti i pazienti sembrassero uguali, c’era un appiattimento delle cure. E questo provocava infelicità anche a loro. A quel punto ho organizzato progetti di riabilitazione intensiva insieme a professionisti quali i fisioterapisti o i logopedisti. Ora la riabilitazione è estesa a tutti. Conta come si guarisce, non solo quanti guariscono".
Alcuni pazienti in quel dossier, nelle loro istantanee, hanno raccontato come Massimino sia riuscita a farli ridere. "Un insegnamento che mi hanno lasciato questi anni è l’importanza di ridere, quanto sia prezioso riuscire a farlo. Sul sorriso si riesce sempre a trovare una solidarietà, a costruire un’alleanza tra chi cura e chi è curato". Non è semplice, ovviamente. E non lo è innanzitutto perché, a proposito di guarigione, alcuni tumori cerebrali sono tuttora senza una cura. I bambini che escono indenni da alcuni di essi sono solo il 5%. "Resta un divario tra la mole di conoscenze acquisite negli ultimi decenni e l’efficacia delle cure. È come avere un figlio e sapere tutto su di lui tranne come poterlo rendere felice. Dentro di me questo ha un peso. A volte, quando vedo quelli che lavano le vetrine dei negozi, penso: che bello! Quello è un lavoro compiuto, efficace nel breve termine: prima la vetrina era sporca, ora è pulita. Se la prima volta va male, puoi rifare. Prima o poi il risultato arriva ed è evidente. E a modo tuo hai contribuito a far entrare luce in negozio".