
Marilyn Manson scatenato sul palco
Milano, 17 giugno 2015 - Ju suis Marilyn. Quando a gennaio alcune radio europee hanno deciso di programmare la sua “Killing strangers” come risposta all’attentato alla redazione di Charlie Hebdo, Manson è riemerso dal settimo girone dell’inferno, quello degli eretici, trasformato in un baluardo del libero pensiero. Fatto abbastanza sorprendente, vista l’opinione diffusa che il suo indigesto luna park dello stravizio abbia ormai fatto il proprio tempo. Provocare stanca e quel pubblico di adolescenti insoddisfatti - cui Brian Hugh Warner deve la sua elevazione da oscuro rocker dell’Ohio a (antichrist) superstar da 50 milioni di dischi venduti in ogni angolo del pianeta - oggi guarda altrove.
Così il concerto che stasera deposita il Reverendo sul palco dell’Alcatraz (che nostalgia i tempi in cui le destinazioni erano il vecchio PalaSharp o il Forum di Assago) col suo sulfureo “The Hell Not Hallelujah Tour” rappresenta un po’ la prova del nove per capire quali sono ancora le potenzialità del personaggio. Nell’ultimo album Marilyn Manson si dà del “pale emperor”, dell’imperatore pallido (con tutto quel cerone difficile dargli torto), anche se in realtà il sovrano “emaciato” in questione non è lui ma il romano Costanzo Cloro. Tra i solchi di questa nona fatica in studio di “Mazza” a spiazzare i detrattori pensa un muscolosissimo rockblues rivitalizzato dalla collaborazione dell’ex mito con Tyler Bates, noto compositore di colonne sonore per la tv e per il cinema (“300”, “I Guardiani della Galassia”, un paio di titoli), invertendo la china di opere fiacche e incolori lungo cui era rotolato nell’ultimo decennio.
Dopo le cocenti delusioni dei vari “The high end of low” o “Born villain” liberissimi di credere che “The pale emperor” sia l’ennesimo album irrilevante di un raggelante figuro che ha già dato tutto al mondo delle hit-parade ormai da un pezzo (come confermato nel 2009 dal licenziamento a opera dalla sua etichetta storica: la Interscope), eppure brani come “The Mephistopheles of Los Angeles”, “Warship my wreck”, “The third day of a seven day binge” farebbero la fortuna di ogni live. Il primo a saperlo è proprio lui, il vampiro delle Hollywood Hills, nuovamente in tour da questa parte dell’Atlantico alla ricerca di quel riscatto che gli sfugge ormai dai tempi delle clamorose collaborazioni con Trent Reznor dei Nine Inch Nails o con Michael Beinhorn. Troppo interessato a darsi in pasto ai media come un lugubre personaggio dei romanzi di Mary Shelley e ad alimentare il mito di una sessualità tanto irrefrenabile quanto malata (si vanta di avere ogni giorno tra i cinque e i dieci “incontri”, tantini per una pornostar figurarsi per un quarantacinquenne strafatto di assenzio, vodka e marjuana come lui) per occuparsi realmente di musica. Ma il sold-out dell’Alcatraz dice che un pubblico Manson a Milano ancora ce l’ha.