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Bertolè Viale, 50 anni da magistrato: "Possiamo sbagliare, non piegarci"

Sognava la toga quando alle donne era ancora preclusa. E ce l’ha fatta di MARINELLA ROSSI

Laura Bertolè Viale

Milano, 10 dicembre 2015 - «Ma... non è possibile per una donna fare il magistrato». Le dissero così, ed era regolare, allora era legge. Fino al 1963. Niente che facesse gridare alla discriminazione. «Avevo chiesto di avere accesso a sentenze utili per la tesi con il professor Giandomenico Pisapia sulle violazioni ai codici di assistenza familiare».

Laura Bertolè Viale, magistrato per 50 anni. Allora cosa disse? «Dissi: non è possibile? Lo sarà... A venti anni si ha fiducia». Fiducia: nel dicembre ’63 anche la magistratura aprì, anzi socchiuse, le porte alle donne. E con lo stesso sentimento di fiducia Laura Bertolè Viale ha salito tutti i gradini. Classe 1942, nata nella Rodi del Dodecaneso (allora italiana), uno zio magistrato, passione per la filosofia, il dopoguerra in Italia, Amalfi, Pescara (dove studia «con il mio amico Emilio Alessandrini»), Varese, Milano. E sono i 50 anni - dal diritto di famiglia al penale, fino al ruolo apicale di avvocato generale della Repubblica e sostituendo, nell’ultimo anno di malattia, il procuratore generale Manlio Minale - più intensi, vitali e tormentati del Paese. Quando entra nel palazzo di giustizia milanese è una bella ragazza bionda di 24 anni. Ne è uscita il 30 novembre, 48 anni passati in un soffio, con un saluto ad amici e colleghi, e con l’eleganza che oscura discorsi di commiato.

Lei diventa magistrato quando di donne se ne saranno contate una decina su 200 o poco più. E’ stata dura? «A esser sincera, no. Io non ho avuto alcun problema. Ho trovato curiosità, battute, ma anche molto affetto. Ricordo la volta in cui un avvocato mi disse “signorina, vada a chiamare il giudice” e io: “il giudice sarei io”... O quando, nel discutere una causa di separazione di una signora con molte difficoltà ad andare a trovare il figlio in Svizzera, la spronai, e il suo legale: “Signor giudice, non ci faccia caso, è una donna. Sa, come sono le donne...”. Avevo meno di 30 anni e lunghi capelli biondi, difficile non riconoscermi come donna...».

Ma poi, come magistrato, incidentalmente donna, attraversa le storie che hanno fatto la storia d’Italia. E che le valgono etichette agli antipodi: “giudice fascista”, nella condanna agli ex di Avanguardia Operaia coinvolti nell’omicidio dello studente di destra Sergio Ramelli, e “toga rossa” nella sequenza di processi a Silvio Berlusconi - All Iberian, Guardia di finanza, David Mills - e quando emette decine di pareri negativi alle ricusazioni dei collegi, avanzate dalla difesa dell’ex premier. «Vero. Ma vorrei dire una cosa: io non ho mai ricevuto pressioni. E non ho mai dovuto dire di no. Sarà che le notizie girano. Primi anni Settanta, una causa di separazione difficile, per colpa, adulterio. Di mezzo c’era un personaggio importante - non mi chieda il nome, non me lo ricorderei - da cui arrivavano segnalazioni. In sentenza scrissi che la decisione di un processo non particolarmente difficile era stata resa particolarmente difficile dalle pressioni giunte. Uno degli avvocati in causa, dalla parte opposta al personaggio in questione, era Gianfranco Maris: “Ma lei non vuol fare carriera da grande?”, disse sorridendo. Qualche anno fa ci siamo rivisti: vede che l’ho fatta un po’ di carriera? Abbiamo riso di gusto».

Basta far girare la voce? «Beh, io ho avuto esempi d’oro. I miei maestri furono Bianchi De Spinosa, Franco Ferrante, mio marito Clemente Papi». E di suo marito, morto nel 1990, resta la scintillante e affettuosa presenza fisica di 588 coppe allineate in scaffali e da lui vinte al galoppo, sua passione oltre alla magistratura. «Si, quei maestri mi hanno insegnato che il magistrato si fa così: si può sbagliare, ma piegarsi a opportunità, politiche o altre, mai. Credo in modo incrollabile nella divisione dei poteri. Per un magistrato non esiste la parola: opportuno. Esiste: legale e legittimo. E’ quanto si legge sulle aule: la legge è uguale per tutti. Il processo è a garanzia della società e dell’imputato stesso: perché se non ci fosse, con le sue regole, sarebbe vendetta, come ci dicono Sofocle e Antigone...».

Principi impalliditi - secondo alcuni - nell’ultima vita del palazzo di giustizia di Milano: ricorderà, a esempio, che è morto per una manciata di giorni e per prescrizione, il processo per corruzione giudiziaria dell’avvocato Mills da parte di Berlusconi. Giorni persi tra l’inerzia della Corte d’appello nel decidere sulla ricusazione e il collegio giudicante. «Ricordo. Tirarono molto in lungo, avrebbero dovuto decidere prima. Io detti subito il mio parere contrario all’istanza di ricusazione, poi si perse molto tempo».

Lei sorride, alza le mani. Non le si può chiedere di più... «I principi sono pochi, risalgono a Cicerone: semplici da comprendere, meno da attuare. Non tutti hanno avuto gli stessi esempi».

Processi, i più importanti: piazza Fontana, che riportava alle responsabilità degli ordinovisti veneti, Delfo Zorzi in testa. «Ricordo tutto: la sentenza di primo grado, condanna, assai ben fatta. E ricordo che in appello non riuscimmo a farla capire ai giurati. Il mio secondo figlio è nato cinque giorni dopo la strage, Milano era plumbea, indescrivibile. E quei giudici popolari erano nati tutti ben dopo... Fu una forte delusione. La stessa per la strage in questura, ma almeno in quel caso fu riconosciuta la mano dell’estremismo nero».

Omicidio Calabresi, processo ad Adriano Sofri e agli ex di Lotta Continua. «La responsabilità era già stata scolpita in primo grado, con la sentenza di Manlio Minale. Non ci sarebbe stato altro da aggiungere, ma ci furono sette processi».

Si può fare il magistrato fuor di correnti, della magistratura? «Sì. Io da almeno quindici anni ho lasciato l’Anm, la mia esperienza associativa è pari a zero».

Il motivo? «Non me lo ricordo (sorride), ma lo feci dopo alcuni commenti verso un collega: non mi piacquero. Poi ho sempre lavorato molto: di tempo, tra lavoro e famiglia, ne restava poco. E non avevo particolari ambizioni di carriera...

Con la carriera che ha fatto? «L’ho fatta, (sorride ancora) perché a volte il Csm sbaglia...».

Un’ultima domanda. Cos’è la giustizia? «Trenta anni fa in una scuola elementare fui invitata a spiegarlo agli alunni. Pensate di avere un bel giocattolo, dissi più o meno, arriva un bambino, figlio del sindaco del paese vicino, e ve lo porta via. Il giudice ve lo restituisce».

Sembra facile... «Tre anni dopo mi mandarono il tema di uno di quei bimbi. C’era scritto: “La giustizia è una bella signora bionda”». Seguiva disegno.

marinella.rossi@ilgiorno.net