
di Annamaria Lazzari
Ha viaggiato ovunque e interpretato la creatività nella pubblicità e nell’illustrazione, dopo un esordio “rock“. Ma è con le sue mappe urbane artistiche che il nome di Mario Camerini è diventato famoso.
Ha continuato a disegnare le sue cartine anche durante la pandemia, nel suo studio di via delle Foppette, da solo e senza l’ausilio della tecnologia: "Non uso né computer né righello, è il braccio che tira le righe. Se vengono leggermente stortignaccole è il bello del disegno…". Nasce in Brasile 67 anni fa. "A San Paolo perché mio padre, italiano ma ebreo, si era rifugiato lì dal 1938, dopo le leggi razziali. A Milano ci siamo trasferiti quando avevo nove anni. Ho fatto il liceo artistico a Brera, una scuola di grafica a Lugano. Ma il mio primo lavoro è stato nel rock and roll, come tecnico del suono per Eugenio Finardi e mio fratello Alberto. Nel 1979 me ne sono andato via dall’Italia perché era diventata invivibile, con tutte quelle siringhe piantate in mezzo agli alberi. Sono venuto in Brasile e ho lavorato per una tv. Disegnavo anche le copertine dei libri".
"Nel 1983 ritorno, in piena Milano da bere, chiamato da mio padre per lavorare nella pubblicità. Ho lavorato con lui, poi come regista e producer per altre agenzie. Ho lavorato con John Landis (il regista di “Blues Brothers“, ndr) e Hugh Hudson (“Momenti di gloria“) per gli spot di Opel, Martini, Coca Cola. Ma la pubblicità di cui sono più orgoglioso è quella per Tiscali col Tony Kaye (“American History X“): lui era un pazzo furioso, un asociale ma un genio. Era tutto molto divertente, viaggiavo fra Costa Azzurra e Los Angeles ma è una vita che non rimpiango: ero sempre circondato da una trentina persone, tutti con la pretesa di mettere il becco nelle mie cose e di saperle fare meglio di me… Io al lavoro di squadra non ci credo molto: o mi si lascia fare o nulla".
Morale?
"Ho mollato tutto. Nel 1992 sono andato a vivere in Grecia a Rodi, con moglie e figli. Vivevamo in un container. Ho fatto il pittore di insegne. Poi ho disegnato la prima mappa della città vecchia di Rodi che non esisteva. Ne sono seguite innumerevoli altre. Una mia amica vendeva gli spazi pubblicitari sulle cartine e quindi ci campavo. Quando mi sono stufato anche della Grecia sono tornato a Milano".
"Sempre mappe per molti Comuni, anche per Roma, Venezia e ovviamente Milano. Ho realizzato anche quelle dei quartieri come Tortona, Brera, Corso Como; la prossima sarà su Porta Romana. Le mie mappe sono tutte disegnate a mano e sono interpretazioni artistiche delle città che elaboro dopo aver condotto lunghissime ricerche. Continuo anche a fare l’illustratore, adesso per la trasposizione del libro “Le nove porte“ di Jirí Langer sui chassidìm. Illustro anche gli alberi genealogici collaborando: l’ho fatto anche per Liliana Segre".
Come ha vissuto l’ultimo anno?
"Ho continuato a disegnare nel mio studio da solo, come sempre. È stato un anno di isolamento che peraltro giudico sacrosanto quando si ha a che fare con una pandemia incontrollabile. Nell’eccesso di informazioni con Internet – una vera torre di Babele - si preferisce cercare di addossare a qualcuno la colpa, anche per una disgrazia naturale. Io preferisco considerare anche l’imponderabile".