GIAMBATTISTA ANASTASIO
Cronaca

L’assistenza alla grave disabilità: "Urge costruire percorsi e servizi per la transizione all’età adulta"

Oggi la presa in carico subisce un brusco stop quando il paziente compie 18 anni ed esce dalla pediatria. Appello della Fondazione Maddalena Grassi: valorizziamo e diffondiamo le esperienze che colmano il gap.

Maurizio Marzegalli, Orsola Sironi e Nora Concas, della Fondazione Maddalena Grassi

Maurizio Marzegalli, Orsola Sironi e Nora Concas, della Fondazione Maddalena Grassi

L’aspettativa di vita si allunga anche per le persone con disabilità gravi e gravissime. Ma una volta che queste diventano maggiorenni il sistema sociosanitario fatica a garantir loro una presa in carico e delle cure che siano in continuità con quelle garantite fino al giorno prima che compissero 18 anni. Si fatica a preservarne non solo o non tanto il grado di specializzazione ma, soprattutto, l’assiduità e il grado di personalizzazione. E la difficoltà si fa tangibile, in senso letterale, nel momento in cui i luoghi di cura o di ricovero si rivelano privi di locali e spazi attrezzati per accogliere non più il bambino ma il giovane adulto con grave disabilità. Questo il tema affrontato ieri nel convegno “Diventare grandi con disabilità gravi“, organizzato dalla Fondazione Maddalena Grassi, che dal 1992 segue e assiste a domicilio bambini e adulti con disabilità e si occupa anche di cure palliative. Un convengo al quale hanno partecipato diversi specialisti e più associazioni, di modo che il tema, non semplice, fosse affrontato sotto molteplici aspetti. Minimo comune denominatore degli interventi: la sempre più urgente necessità di dare vita a percorsi di transizione per le persone con gravi disabilità.

Complicato dare numeri blindati sul fenomeno dell’aspettativa di vita. Angelo Selicorni, responsabile della Pediatria dell’ospedale Sant’Anna di Como, ne cita alcuni tratti da studi pubblicati su primarie riviste scientifiche internazionali, tra le quali The Lancet. Se in Italia l’aspettativa di vita media è di 84 anni, per quanto riguarda le persone con disabilità intellettiva "è di 74 anni per chi convive con disabilità lievi, di 67 anni per chi convive con disabilità moderate e di 58 anni per disabilità severe. Un secondo studio – prosegue Selicorni – individua una connessione tra aspettativa di vita delle persone con disabilità e ricchezza del Paese. In Paesi quali l’Italia l’aspettativa media per le persone con disabilità è 70 anni". Numeri che segnano una risalita. Il dato di solito preso a riferimento in questo ambito è quello dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, secondo la quale chi ha disabilità ha una longevità media inferiore di 20 anni.

Più eloquenti dei dati sono le esperienze di persone e famiglie con disabilità, quali quella di Maurizio Marzegalli, cardiologo e fondatore della Fondazione Maddalena Grassi. "Ho un nipote di 20 anni con paralisi cerebrale infantile, sto vivendo come nonno questa situazione. Gli ospedali pediatrici che lo hanno sempre seguito, hanno smesso quando ha compiuto 18 anni. A livello normativo si è posta questa soglia di età rigida, perentoria, che finisce poi per essere fittizia. Se mio nipote, o altri come lui, una volta diventati maggiorenni hanno un’emergenza dove si va, allora? Nel pronto soccorso di un ospedale generico? Lì non saprebbero da che parte iniziare. Senza contare che la documentazione relativa ai 10 anni di presa in carico, nel caso di mio nipote, non passa in automatico a nessun altra struttura. Da qui la necessità dei percorsi di transizione. Qualcosa c’è già, penso al Dama, un servizio ospedaliero pensato per chi convive con disabilità. Ma esperienze come il Dama devono essere valorizzate e rese sempre più capillari. E bisogna aprire sempre di più i Dama alla componente pediatrica, e non solo. Questo processo è iniziato ma va sveltito e deve essere favorito. Fa ben sperare che ultimamente alcuni reparti pediatrici sembrano, per fortuna, infischiarsene della normativa e dei limiti dei 18 anni". Non solo. "Oltre a potenziare la componente pediatrica dei Dama – conclude Marzegalli –. Per quanto riguarda un altro tema, relativo all’assistenza alle persone con gravissima disabilità, bisognerebbe affiancare ai caregiver famigliari dei caregiver professionali. Oggi le uniche figure autorizzate ad eseguire manovre sulla persona con disabilità sono gli infermieri e gli stessi caregiver familiari. Ma i primi possono intervenire a domicilio solo alcune ore a settimana quindi tutto il carico è sui secondi".

Quanto alle esperienze in atto sul fronte dei percorsi di transizione, Selicorni fa presente che proprio al Sant’Anna da inizio anno è stato istituito un ambulatorio di transizione nel quale più specialisti lavorano in équipe. Occorre poi che le reti esistenti facciano rete. "C’è molto da lavorare, anche perché ci sono diverse transizioni – spiega Selicorni –: quella del paziente con paralisi cerebrale è diversa da quella del paziente con malattia metabolica ereditaria. Il mattone primo da mettere è la consapevolezza dell’assoluta urgenza di costruire questi percorsi da declinare, poi, sia a livello di medicina territoriale, quindi mi riferisco al pediatra di libera scelta e al medico di medicina generale, sia a livello di centri specialistici e, infine, bisogna mettere a sistema le varie reti che insistono su questo gruppo eterogeneo di pazienti: la rete delle cure palliative, che va a domicilio, la rete Dama, di livello ospedaliero, e la rete delle malattie rare che ha peculiarità, competenze e un’organizzazione importanti. Reti che devono fare rete senza rubarsi risorse e pazienti".