L’amico Age e la sorniona resa a metà

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Andrea

Maietti

Razza misteriosa degli "agrafi", cioè gli scrittori del "no", coloro che, anche scrivendo, non credono alla scrittura. Ne parla Enrique Vila-Matas in "Bartleby e compagnia".

Cos’è che sembra accomunare questa singolare compagnia (che comprende, tra gli altri, Socrate, Rimbaud e Kafka)? Depressione, noia, follia. E forse anche la sindrome di Pascal.

Quella di cui soffriva o godeva il mio amico Age Bassi. La lucida serena sensazione di essere un puntolino nell’universo, l’accettazione della nostra finitezza. Age non conservava niente di quanto scriveva.

Ambiva semplicemente a un manufatto artigianale di buon gusto. E a un compenso dignitosamente adeguato.

È stato l’Helenio Herrera degli scribi di Lodi: il primo a difendere il diritto a un compenso per il mestiere di penna (lui ha scritto fino all’ultimo con una semplice biro), esattamente come per qualsiasi altro mestiere. Di assurgere a gloria letteraria non gli importava un fico. Era stato troppo povero, Age, per non avere le sue brave ragioni. Una certa sera, al Panathlon di Lodi, lui ed io fummo premiati in denaro: rispettivamente come er mejo dei pubblicisti (lui) e er mejo dei collaboratori (mì) della stampa lodigiana. Cinquecentomila lire a lui, centomila a me.

Age sbalordì tutti ordinando una bottiglia di Champagne per gli amici.

"Permetti Age, che contribuisca?", dissi.

E lui, sornione sotto i baffetti chapliniani: "Andrea, mi arrendo: facciamo a metà".

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