
Un mezzo a portata di tutti apprezzato anche da Gaber (foto sopra)
Milano, 19 febbraio 2017 - Lo scooter, nato a Lambrate settant’anni fa, con la Vespa si è diviso il popolo dei neomotorizzati creando una contrapposizione quasi filosofica. Settant’anni fa, in un capannone a Lambrate, gli operai della catena di montaggio della Innocenti finiscono di assemblare un nuovo scooter: la Lambretta. Una fabbrica, quella a Lambrate, nata nel 1922 come fabbrica di tubolari in acciaio, che, dopo essere stata più volte bombardata durante la seconda guerra mondiale, capisce che è necessaria una conversione per poter tenere alti i livelli di produzione. È proprio Ferdinando Innocenti che decide di avviare la produzione di uno scooter rivoluzionario, capace di far muovere gli italiani in modo facile ed economico.
Anche la Lambretta, come la Vespa, è stata progettata da un ingegnere aereonautico: Pier Luigi Torre; e anche lei è l’unico mezzo quasi alla portata di tutte le tasche degli italiani. Il lambrettista-tipo è il lavoratore medio che ancora non può permettersi l’utilitaria ma che ora può andare in moto senza coprirsi di polvere o imbrattarsi d’olio grazie alla protezione offerta dallo scudo. All’epoca un operaio guadagna ventimila lire al mese, la Lambretta ne costa poco più di centomila. Ed è subito boom, tanto che a Lambrate si arriva a produrne un milione di esemplari ogni anno. Un successo soprattutto al Nord, perché la Lambretta è forse un po’ più grezza, ma sicuramente più resistente e potente, e s’identifica alla perfezione con la Milano che lavora grazie anche a un aspetto sicuramente più industriale e meno contadino; da Roma in giù, invece, si preferisce la Vespa, più raffinata ed elegante, simbolo del tempo libero, gite fuori porta e Dolce Vita.
Una rivalità netta tra gli scooteristi, due modi differenti di concepire la vita, non solo il trasporto, una contrapposizione quasi filosofica: chi sale su una Vespa non acquisterà mai una Lambretta, piuttosto va a piedi. E viceversa. Ma a metà degli anni Sessanta il boom finisce, per la prima volta le auto sono più vendute degli scooter, le Fiat 500 e 600 iniziano a rodere clientela. Così, dopo aver motorizzato prima la classe operaia e poi gli impiegati, Piaggio e Innocenti puntano verso i giovani. Studiano uno scooter 50 da guidare senza patente, premio ideale per chi supera l’esame di terza media, perfetto per girare in due e andare dove si vuole.
La Piaggio presenta il Vespino; l’Innocenti risponde con la Lambretta 50, commettendo un grave errore: al fine di semplificare la costruzione e ridurre i costi, il cinquantino della casa di Lambrate adotta una carrozzeria portante, simile a quella utilizzata dalla Vespa, solo esteticamente più brutta. Un flop colossale a cui si aggiunge quello del Lui, uno scooter innovativo con un design minimalista ma che all’epoca è considerato povero. In un anno sono venduti solo 37mila esemplari e l’Innocenti decide di sospendere la produzione degli scooter. È l’inizio della fine per l’azienda di Lambrate: le lotte sindacali e le mutate condizioni dei mercati fanno sì che Luigi Innocenti, il figlio che ha preso le redini dell’azienda dopo la morte di Ferdinando, decida di chiudere i battenti nel 1971. Ironia della sorta la Lambretta muore proprio quando finisce l’illusione di quel «miracolo economico» - tanto atteso dagli anni Cinquanta e vissuto per poco negli anni Sessanta - che lei ha rappresentato alla perfezione incarnando lo spirito della Milano industriale, quando la città aveva trainato l’Italia alla rinascita.