Un totale di 52 cervelli e oltre 50mila provette con sangue, cellule e Dna. Un patrimonio inestimabile quello custodito nella Banca del cervello di Abbiategrasso, l’unica biobanca in Italia e una delle poche in Europa a studiare e conservare tessuto cerebrale umano. Campioni preziosi che hanno permesso di pubblicare più di cento articoli su riviste internazionali, con l’obiettivo principale di analizzare lo sviluppo della malattia di Alzheimer.
"Come le banche, possiamo fare dei “prestiti” ad altri centri di ricerca", racconta Antonio Guaita, 75 anni, geriatra e direttore della Fondazione Golgi Cenci, l’ente che gestisce il progetto. "I tessuti cerebrali vengono in parte inclusi in paraffina e studiati al microscopio, in parte congelati a -80 °C per studi biochimici". Il cervello viene espiantato entro trenta ore dalla morte, per preservarne l’integrità. L’incisione rimane poco visibile e dopo il prelievo il corpo viene restituito integro per i funerali. "Al programma partecipano 205 volontari - precisa Guaita - quasi tutti ultraottantenni conosciuti nel corso di “InveCe”, la ricerca sulla salute cerebrale degli anziani di Abbiategrasso".
Il principale filone di studi è quello sull’Alzheimer, la più frequente demenza di tipo degenerativo. I processi metabolici dei neuroni sono molto intensi, con un’attività di sintesi di proteine e neurotrasmettitori che vengono continuamente ricambiati. Tali processi richiedono molta energia e diventano dunque meno efficienti con l’invecchiamento. Se le proteine degradate non vengono asportate e digerite si depositano formando le placche neuritiche, la lesione neuropatologica principale dell’Alzheimer. In breve, è come se in una città venisse meno il servizio di nettezza urbana: la spazzatura si accumulerebbe e le persone farebbero fatica a transitare."Nei circuiti neuronali la mancata rimozione dei depositi proteici determina una progressiva disfunzione delle sinapsi, i collegamenti che consentono al cervello di funzionare", spiega Emanuele Poloni, neurologo e neuropatologo della Fondazione.
Nella forma più frequente le aree inizialmente interessate sono quelle dell’ippocampo: tipicamente la malattia esordisce con un disturbo nell’acquisizione di nuove informazioni e poi si diffonde in altre aree cognitive. Tra le proteine che si accumulano in quantità maggiore vi è la beta-amiloide, "che però non spiega tutto - sottolinea Poloni - Alcuni anziani ci convivono senza sviluppare l’Alzheimer". E infatti i costosissimi farmaci anti-amiloide, anche quelli approvati dalla Food and Drug Administration, hanno una capacità solo parziale di rallentare il peggioramento della malattia. "Dal punto di vista del benessere della persona non cambia molto. Tra l’altro possono avere effetti collaterali pericolosi come le emorragie cerebrali".
L’ottima condizione dei tessuti e il confronto con cervelli sani ha permesso di ottenere importanti risultati. Una linea di ricerca – in collaborazione con l’Istituto superiore di sanità e finanziata dal Pnrr - si concentra sulla microglia. "Sono le cellule immunologiche del sistema nervoso, gli “spazzini” del cervello che potano le sinapsi malate e puliscono i residui proteici - spiega il neuropatologo - Ai tempi della pandemia siamo stati tra i primi a dimostrare che le complicanze neurologiche del Covid-19 erano dovute a un’iperattivazione della microglia, che “mangiava” i neuroni sani". Tale meccanismo può verificarsi anche nell’Alzheimer.
Un altro studio, in fase di pubblicazione, riguarda l’attivazione genica. "Confrontando cinque aree cerebrali di soggetti con e senza Alzheimer, abbiamo riscontrato grandi differenze in tutte le aree", spiega Riccardo Ferrari, dottorando e neurobiologo della Fondazione. Nei pazienti sono stati identificati più di mille geni “deregolati“, e infatti esistono diverse tipologie di Alzheimer. In base alle osservazioni, il team ha ipotizzato un percorso di progressione della patologia, che prima altera i processi di corretta gestione delle proteine e poi culmina in una degenerazione dei processi sinaptici. Comprendendo quali sono i geni alterati, questi studi potrebbero portare a identificare nuovi bersagli terapeutici.
Il progresso delle ricerche richiederebbe la prosecuzione dell’attività iniziata ad Abbiategrasso. "Serve tessuto cerebrale fresco: stiamo faticosamente cercando di rilanciare un progetto trentennale - racconta Poloni - La politica dovrebbe darci una mano, perché la legge sulla donazione del corpo per ricerca, pur essendo un importante passo avanti, è stata concepita senza tener conto delle caratteristiche specifiche del cervello".
La Fondazione Golgi Cenci sta lavorando anche per costituire una biobanca accreditata a livello nazionale. "In Italia ce n’è solo una, quella di Pisa - precisa Guaita - Ad avere in mano la certificazione finale è Accredia, un ente emanazione del Ministero della Salute. Speriamo di ottenere questo riconoscimento in due o tre anni". Tale conquista consentirebbe alla Banca di avere più fondi. "I finanziamenti principali, specie nei primi anni, sono arrivati solo dai soci fondatori, poi abbiamo cominciato a partecipare a bandi competitivi su singoli progetti". In questo settore, altri Paesi europei e gli Stati Uniti sono partiti prima, e hanno già diverse banche del cervello. "Stiamo costruendo qualcosa in cui crediamo - aggiunge Poloni - perché risponde a un reale bisogno della scienza e della società. Speriamo di riuscire a sviluppare questo tipo di attività neuroscientifica anche in Italia".