ANDREA GIANNI
Cronaca

Il killer di Lea Garofalo e l’ultima lettera al figlio prima del suicidio: "Mi chiedo come tu possa chiamarmi papà"

Rosario Curcio, si è tolto la vita a Opera dove scontava l’ergastolo. Le sue riflessioni riservate al figlio nato due mesi dopo il suo arresto: "Non ti ho dato nulla di quel che un padre avrebbe dovuto dare"

Una manifestazione in ricordo di Lea Garofalo

Una manifestazione in ricordo di Lea Garofalo

Milano – L’ultima riflessione di Rosario Curcio, pensieri messi nero su bianco in passato, durante uno degli incontri fra detenuti nel carcere di Opera, è rivolta al figlio nato nel 2010, due mesi dopo il suo arresto per l’omicidio della testimone di giustizia calabrese Lea Garofalo. "Mi chiedo come mio figlio riesca a chiamarmi papà (...) Non gli ho dato nulla di quello che un padre sogna di dare al proprio figlio: la sua presenza, l’amore, la guida in un cammino positivo e costruttivo per se stesso e per la società. Non passa giorno che non mi chieda se potrà mai perdonarmi per tutto ciò".

Curcio, 46 anni, si è tolto la vita impiccandosi nella sua cella a Opera, dove stava scontando l’ergastolo. Quando lo hanno trovato, mercoledì pomeriggio, le sue condizioni erano già disperate, ed è morto all’ospedale San Paolo. La lettera del 2021 al figlio faceva parte di un percorso che l’uomo stava seguendo in carcere con il Gruppo della Trasgressione, creato un quarto di secolo fa dallo psicologo Angelo Aparo per il recupero dei detenuti attraverso l’auto-percezione delle proprie responsabilità e la presa di coscienza dei reati commessi. Percorso che Curcio aveva interrotto circa sei mesi fa, quando aveva smesso di partecipare agli incontri.

"Durante le nostre iniziative aveva sempre dimostrato una grande serietà – spiega Aparo – a un certo punto non è più venuto, diceva che stava lavorando in carcere e non aveva più tempo. Io mi sento in colpa perché un giorno mi avevano detto che stava male e non l’ho chiamato. Sono giorni che questo pensiero non mi lascia". Fino al suo arresto, nell’ottobre 2010, Curcio non aveva mai avuto problemi con la giustizia. La sua storia criminale inizia ufficialmente la sera del 24 novembre 2009, giorno dell’omicidio di Lea Garofalo, che con coraggio aveva deciso di denunciare alle autorità i traffici illegali in Lombardia dell’ex compagno Carlo Cosco, legato alla ’ndrangheta.

La donna fu rapita in viale Montello a Milano e portata in un casolare a Monza, dove fu torturata e infine uccisa. Per cancellare le prove, il corpo fu bruciato. Il 30 marzo 2012 furono condannati in sei: Carlo Cosco e suo fratello Vito all’ergastolo con isolamento diurno per due anni, mentre all’ergastolo con un anno di isolamento Giuseppe Cosco, Rosario Curcio, Massimo Sabatino e Carmine Venturino, ex fidanzato di Denise, la figlia di Lea Garofalo. Curcio, in carcere, ha condiviso il percorso nel Gruppo della Trasgressione con un altro dei condannati, Vito Cosco, che nei giorni scorsi ha scritto una lettera rivolta a don Luigi Ciotti, dopo un incontro fra i detenuti e il fondatore di Libera. Associazione che ha tra i suoi simboli proprio Lea Garofalo, che ha pagato con la vita la scelta di denunciare i clan.

"Oggi penso che anche mia nipote Denise avrebbe potuto dare un abbraccio a sua madre – scrive Vito Cosco – così come Lea avrebbe potuto abbracciare i suoi familiari. Penso al dolore e al male che ho creato togliendo a una figlia sua mamma (...) Chiedo scusa alla famiglia di Lea, a mia nipote Denise, alla mia famiglia e a tutta la società civile". Richieste di perdono dal carcere, che si aggiungono alla riflessione messa nera su bianco da Curcio durante il percorso interrotto qualche mese fa, fino al suicidio in cella.

"Un figlio non dovrebbe mai vivere una situazione come questa – scriveva – che per vedere suo padre deve varcare le mura di un carcere. Quando viene a trovarmi l’intensità è fortissima, anche se il tempo che trascorriamo insieme è poco e mi rimane sempre una parola non detta. Ma durante l’incontro sento tutto il suo amore, l’affetto e la gran voglia di vivermi. Mi sono accorto della sua crescita facendo riferimento al tavolino dei colloqui come misura della sua altezza. Vorrei poter entrare nella sua testolina – conclude – per comprendere come quel piccolo ometto può sopportare tutto questo".

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