
Il rapper Karkadan
Milano, 23 agosto 2015 - Un cadavere disteso a terra, tra strada e marciapiede. A fare da cornice alla scena, l’indifferenza apparente dei ragazzi che a quell’ora affollano il quartiere. Dagli scorci è possibile riconoscere la zona esatta di Milano: via Imbonati. È così che, senza filtri, il rapper tunisino-milanese Karkadan (come ama definirsi) fotografa, nel suo ultimo videoclip, quell’angolo della città che lo ha adottato.
Come mai il video di “Essid” inizia con un’immagine di morte? «Il cadavere è quello di un leone, potrebbe essere il mio come quello di chiunque altro. Il brano è la metafora di un mondo in cui gli animali rispecchiano le varie inclinazioni degli uomini all’interno della società. Il protagonista è un corvo che dall’alto osserva gli atteggiamenti degli altri animali di fronte alla morte del leone».
Perché ambientarlo proprio nella zona fra via Imbonati e viale Jenner? «Volevo mostrare a tutti l’ambiente in cui vivo. La zona che mi ha accolto e che è fonte di ispirazione. Mi piace l’idea che mio figlio possa crescere in un quartiere multietnico come questo».
Nonostante sia spesso teatro di fatti di microcriminalità? «Via Imbonati non è solo luogo di spaccio e kebabbari, qui ci sono diverse associazioni arabe, ragazzi che studiano, aspiranti artisti e la convivenza fra cristiani e musulmani è possibile. A volte capita qualche rissa o scattano arresti, ma non ho mai assistito a scontri per motivi religiosi o culturali. Più facile che i conflitti avvengano fra persone della stessa etnia, che siano arabi o sudamericani».
Quindi la vita “nel quartiere” non è un limite... «Direi piuttosto un’opportunità. Anche il video del mio prossimo singolo verrà ambientato qui e il tema sarà quello della solidarietà che lega cristiani e musulmani. Mi sento in dovere di rappresentare due culture: oggi più che mai mi sento più italiano di un italiano e più tunisino di un tunisino».
Ma da islamico come la vive? «Quando mi sono trasferito mi aspettavo un ambiente molto più legato alla religione, in realtà qui prevalgono cultura e tradizioni. Per la via nessuno ha l’aspetto del ‘presunto terrorista’ e la convivenza fra diverse generazioni di egiziani e tunisini è pacifica».
E alla moschea ci va? «Certo, in viale Jenner. Lì si possono trovare islamici più o meno praticanti e alla mensa la zuppa è ottima».
A Milano esistono davvero frange estreme dell’Islam? «Non ho mai visto nulla. Se sapessi qualcosa, lo denuncerei. Essendo trapiantato a Milano da 12 anni e integrato alla perfezione, capita che i fedeli più intransigenti mi guardino con fare interrogativo, se non con sospetto».
Tra l’altro lei è autore della canzone da un titolo come “I Love Jihad”… «È stata una provocazione molto forte. Sia nel brano che nel video ho voluto mettere in evidenza moltissime delle contraddizioni che spesso si celano dietro le vite di ‘certi musulmani’. È anche per questo che nel mio Paese più che un rapper mi vedono come un politico blasfemo».
A proposito di politica, dell’amministrazione Pisapia che idea si è fatto? «Ho apprezzato l’entusiasmo e gli sforzi per favorire la coesione sociale, ma tra il dire e il fare - piuttosto che il mare - c’è di mezzo un inferno. Ho come l’impressione che tutti i bei discorsi sull’integrazione siano più di facciata che di sostanza. Milano è un piatto che mi ha dato da mangiare e non intendo sputarci sopra, ma se Pisapia non si ricandida mi sta bene».
francesca.nera@ilgiorno.net