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Mario Bellini: Ho visto Milano rinascere. E proprio qui ho imparato a mettermi sempre in gioco

Archistar e designer dallo spirito sempre giovane. "Da realizzare l'ampliamento della Pinacoteca di Brera. Il progetto l'ho consegnato: a quando l'esecuzione?" di Massimiliano Chiavarone

L'architetto Mario Bellini

MIlano, 4 aprile 2015 - «Milano mi mantiene tonico». Lo racconta l’architetto Mario Bellini, uno dei nomi milanesi più noti nel mondo che proprio quest’anno ha compiuto 80 anni.

Lei racconta che da piccolo ha avuto con Milano un rapporto “alla lontana”. Perché? «Sono nato in corso Lodi, ma, a cinque anni, allo scoppio della guerra, ci siamo trasferiti nella villa dei nonni materni a Cavària, vicino Gallarate. Nella stessa proprietà c’era anche la casa di mio zio che aveva dieci figli. In tutto eravamo una ventina di cugini dai sei ai venti anni, era la città dei ragazzi anche perché vivevamo all’interno di un parco con campo da tennis, una piscina e la casa delle bambole. In lontananza vedevamo Milano illuminata dai bagliori degli scoppi, le colonne di fumo dei bombardamenti ma tutto giungeva attutito, noi eravamo lontani».

Ma poi tornaste a Milano? «Sì, dopo l'armistizio. Gli adulti festeggiarono. Ma c'era molta tensione, sentivamo ancora su di noi quasi l’alito dei tedeschi. Tornai a Milano a 10 anni e andammo ad abitare in una villa a Niguarda. Mio padre intanto aveva cambiato lavoro, prima delle guerra aveva due piccole fabbriche che furono distrutte. Allora si dedicò a un’attività commerciale di ottica e radio tv. Ci spostammo ancora in viale Coni Zugna».

Dalla campagna alla città, come aveva ritrovato Milano? «C’era la baraonda della ricostruzione, ma decisi che avrei avuto un pezzo di verde a disposizione. Infatti in città poi ho sempre abitato in una casa con un giardino. Dopo il liceo, mi iscrissi ad Architettura».

In quel periodo la facoltà di Milano era piena di nomi che sono entrati nella storia? «Sì, il preside di Facoltà era Piero Portaluppi, che noi studenti consideravamo della vecchia guardia. Poi c’era Giovanni Muzio che rappresentava l’architettura del ‘900 con il suo progetto, tra gli altri, della Triennale. Mi sono laureato a 25 anni con Ernesto Rogers e Gio Ponti. Ho sempre amato l’architettura del Novecento italiano e milanese, perché ha conciliato con successo le istanze di rinnovamento razionalista e la storia. Ai tempi della laurea, Rogers ci parlava del suo progetto, con lo studio BBPR, della Torre Velasca allora in costruzione. Per me questa grande opera è rimasta figlia del suo tempo, mentre il Grattacielo Pirelli di Ponti è sempre giovane e contemporaneo».

La sua via preferita? «Più che una via è un luogo, il Seminario Arcivescovile di Corso Venezia. Lì avevo il mio quartiere generale collocato su due piani. Ci sono rimasto tra il 1980 e il 1990. In quelle stanze sono nati tanti progetti. E’ una gemma dell’architettura lombarda tra Manierismo e Barocco perché anche se la costruzione inizia nel 1565, il grande portale che affaccia su Corso Venezia è di Francesco Maria Richini del 1652. La vasta corte interna a pianta quadrata con doppio loggiato a colonne binate ti lascia senza fiato. Ricordo che nel progettare edifici di grandi dimensioni,  usavamo quel luogo come riferimento per capire l’impatto dello spazio, il suo rapporto con la città e le persone». 

Perché dice che Milano la rende tonico? «Questa città mi ha insegnato a mettermi sempre in gioco. Le cose più importanti nel mio lavoro me le sono aggiudicate in architettura quasi sempre per concorso e nel design per chiamata degli industriali. Dopo una breve esperienza come designer  per La Rinascente, fui chiamato da Roberto Olivetti nel 1963 per disegnare le prime macchine dell’era digitale, come il Programma 101.  Ho vinto otto volte il Compasso d’oro, la prima a 27 anni».

Tanti i suoi progetti milanesi realizzati? «Sì, i miei primi, negli anni ’80, due edifici e laboratori in via Kuliscioff. Poi, tra gli altri, la mia “Cometa” al Portello: un complesso di edifici trasformati in un grande Centro Congressi con una sovracopertura argentea come quella di un corpo celeste. Tra quelli da realizzare, l’ampliamento e la ristrutturazione della Pinacoteca di Brera che prevede di utilizzare anche il piano terra dell’Accademia che dovrebbe in gran parte essere trasferita. Il progetto è stato consegnato. Mi resta il rammarico di non sapere quando diverrà esecutivo».

di Massimiliano Chiavarone   mchiavarone@yahoo.it