
di Enrico Fovanna
Ha un defibrillatore sottocutaneo al centro del petto da quando aveva 15 anni Gianluca Gazzoli, speaker di Radio Deejay. Proprio come accadrà a Cristian Eriksen, il calciatore della Danimarca caduto a terra per un arresto cardiaco, durante il match contro la Finlandia agli Europei, e salvato per miracolo dallo staff medico. E ci ha convissuto per la seconda metà della sua vita, senza dire niente a nessuno. Fino al 13 aprile scorso, quando ha raccontato la propria storia in un libro.
Qual è la sua genesi?
“Giocavo a basket e il mio cuore subiva aritmie continue e molto forti. Più di una volta sono andato in arresto cardiaco e mi sono ripreso. Ma sono stato molto fortunato. Nessuno capiva cosa avessi. Fino a quando non mi hanno messo un holter, scoprendo che quando lo stress fisico si sovrapponeva a quello emotivo, il mio cuore si fermava. Così i medici hanno provato molte tecniche, fino a quella risolutiva. Ma non ne ho parlato subito“.
Perché?
“Mi sono tenuto il mio segreto per quasi 16 anni, un po’ per senso del pudore, un po’ perché non volevo che le persone attorno a me si preoccupassero. Poi ho capito che era giusto raccontare tutto e l’ho fatto. Con Mondadori, tre mesi fa ho pubblicato "Scosse: la mia vita a cuore libero" e da quel giorno ho scoperto un mondo pieno di storie come la mia“.
Fino al caso Eriksen. Cosa ha provato?
“Rivedere quelle immagini dal campo mi ha fatto capire cosa avessero provato più volte i miei genitori e i compagni di squadra che avevo vicino. Quella di Cristian è una storia finita bene, ora spero e mi auguro che riporti l’attenzione su questo tema un po’ dimenticato e sull’importanza della prevenzione cardiaca. Che è un po’ quello per cui mi batto oggi“.
Cosa manca?
“Troppo spesso i defibrillatori non ci sono. Ed è incredibile, grazie a questi semplici apparecchi tanta gente, tanti giovani si sarebbero potuti salvare“.
La sua impressione su Eriksen, potrà tornare a giocare?
“In Italia no di sicuro. Nessun medico darebbe l’idoneità sportiva a un atleta con un defibrillatore applicato. Forse all’estero, nei Paesi in cui la responsabilità delle conseguenze è lasciata allo sportivo. Ma in quei casi resta anche il grande problema psicologico. Che non è affatto da sottovalutare“.
Ovvero?
“Io ricordo molti attacchi di panico, soprattutto nei primi anni dopo l’intervento. Quando il defibrillatore parte, arriva una scossa forte e ti spaventi. Ti salva la vita, lo sai, ma non basta. Nel libro racconto anche che falsificavo i certificati medici, sbagliando certamente, pur di gareggiare. Invece è giusto che si facciano i controlli“.
Il caso Eriksen ha purtroppo un triste precedente, quello di Astori.
“A lui toccò un’aritmia notturna, che lo colpì quando non poteva fare nulla. E’ proprio pensando a casi come questi che a breve partirò con una campagna per portare i defibrillatori nelle scuole e nelle palestre. Nel libro racconto proprio casi di persone che hanno rifiutato il defibrillatore dopo una crisi, e purtroppo hanno pagato con la vita. Invece è importantissimo, anche come messaggio per tutti gli altri, che Eriksen lo abbia accettato“.
enrico.fovanna@ilgiorno.net