
Loredana Cirillo psicologa e psicoterapeuta dell’Istituto Minotauro autrice di “Soffrire di adolescenza“
Milano – "Ogni omicidio è un suicidio mancato: quando uccidi qualcuno stai uccidendo una parte di te. Ancor di più a 15 anni, un’età in cui si ha il compito di costruire la propria identità. E il danno è indelebile, al di là dei risvolti penali e delle motivazioni, tutte da approfondire". Loredana Cirillo, psicologa e psicoterapeuta dell’Istituto Minotauro, è autrice di “Soffrire di adolescenza - Il dolore muto di una generazione“ (Raffaello Cortina editore).
La cronaca è spiazzante: dalla strage familiare di Paderno Dugnano al 15enne che ha strangolato una vicina di casa a Milano. Cosa sta succedendo?
"Le indagini sono in corso e ogni storia è unica e irriducibile. Ma a maggior ragione per un adolescente commettere un omicidio equivale a sentire di non avere altre speranze e altri strumenti, a parte proiettare sul malcapitato - sia esso legato affettivamente, conoscente o sconosciuto - dolori e rabbie che si hanno dentro e non sono state mentalizzate, che non si riescono a elaborare nella relazione con gli altri".
Come stanno gli adolescenti?
"Crescono i gesti autolesivi e violenti tra i giovani: c’è un’impennata della sofferenza. L’adolescenza è sempre stata l’età della transizione, del cambiamento, della muta che comporta uno stato di crisi. Ma quello che vediamo oggi, anche a livello sintomatico, è qualcosa di inedito e per certi versi drammatico. Abbiamo casi di cronaca che ci parlano di violenza, ma la violenza è la faccia altra di una medaglia che è quella di un dolore che fatica a essere portato all’attenzione degli adulti e che spesso gli adulti non riescono a intravedere. Statisticamente la versione più rilevante è quella dell’adolescenza che implode nelle proprie sofferenze e fatiche, che ricorre all’autolesionismo, che pensa al suicidio, che sviluppa disturbi della condotta alimentare".
Perché stanno così male?
"A partire dalla pandemia se n’è parlato di più, è stata detonatore. Ma credo che questa generazione sia andata incontro a una società paradossale, a una relazione col mondo adulto piena di contraddizioni. È stata rinnegata la dimensione della fragilità, dalla gamma emotiva sono stati rimossi rabbia, paura e tristezza. Si parla solo di buoni sentimenti ma spesso travestiti, finti e fittizi".
Spesso si pensa che questa generazione di adulti sia più vicina ai ragazzi rispetto al passato. Non è così?
"Il mondo adulto si pone in ascolto dei giovani più delle generazioni precedenti, intesse trame affettive di grande vicinanza, ma appare più distante ai ragazzi. Perché ascoltiamo a patto che ciò che hanno da dire i nostri figli e studenti non ci addolori. Nella società della performance e del problem solving non c’è spazio per il problema, si propone subito la soluzione. Non si lascia all’adolescente il tempo di costruirsi il suo percorso in modo che non sia calato dall’alto".
Risultato?
"Covano sacche di dolore, rabbia e tristezza".
Che fare?
"Ripartire dalla complessità dell’adolescenza, stando nella relazione autentica, tollerando il dolore e stando vicini anche quando c’è la rabbia. Si parla di adolescenti fragili, ma spesso sono gli adulti ad esserlo".
Quale dev’essere in questo quadro il ruolo della scuola?
"Se non entra in gioco rischia di perdere un grande appuntamento con i giovani. Anche gli insegnanti e gli educatori devono essere capaci di stare nella relazione, non devono appiattirsi su voti, su bocciature. Che non vuol dire abbassare l’asticella, ma se si punta solo su quello la frustrazione si rafforza, si perde la motivazione. E sappiamo che abbiamo un grande problema sociale: la dispersione scolastica. Senza scuola c’è la strada o il ritiro sociale".
Come evitarlo?
"Evitando l’approccio della “mente frigorifero”, che riempi di nozioni e informazioni che tiri fuori tali e quali quando vuoi tu. Serve una scuola che rimetta al centro i ragazzi, che li valorizzi e non li mortifichi".