Negri
In fondo alla vecchia strada Cassanese, a Oriente, c’era come un tunnel verde, un’ombra d’alberi. Forse tigli. Ma a sei anni o poco più non sapevo distinguere un tiglio da un faggio, un pioppo da un olmo. Sapevo l’essenziale: erano tutte piante e se c’era il sole facevano ombra. Un’ombra densa di cinguettii senza nome. Dietro quel tunnel verde doveva esserci Pozzuolo Martesana. Borgo remoto, la cui reale esistenza restava una congettura. Perché non c’ero mai stato. L’universo attorno a Melzo era incerto e variabile, le montagne un confine definitivo. Le nebbie - quelle vere – ci limitavano allo steccato del cortile. Così Pozzuolo, tutta la pozzuolità, compreso il mio amico Vittorio, era solo pertinente al mito. Specie durante un forte temporale: “Si sentono le campane di Pozzuolo...” diceva la nonna, con lo stesso tono di chi leggesse a merenda o a colazione l’Apocalisse di San Giovanni. Ma quel mattino di giugno era terso e tiepido di distanze nuove. Le allodole replicavano gioiose il loro canto ascendente. Così, con una brigata di coetanei, facemmo coi pedali il folle volo. Ero euforico e timoroso, varcando i confini di Melzo. Quel remoto tunnel verde ci venne incontro, si divise in doppio spalto d’alberi, come quinte di teatro e quella nuova terra incognita ci svelò i suoi misteri.” Oltre il confine, con molto dolore, non trovai fiori diversi” avrebbe cantato molti anni dopo Francesco de Gregori. Io non provai dolore nello scoprire che Pozzuolo e le sue vecchie case a un piano erano del tutto simili a quelle di Melzo. Perché il mio atlante, il mio portolano, si era comunque arricchito di nuove distanze. Così il nostro folle volo verso l’ignoto superò ogni colonna d’Ercole residua. “Tutte le stelle già dell’altro polo vedea la notte”. Passammo per villaggi dalle arcaiche desinenze – Bisentrate, Incugnate – poi decidemmo che era tempo di tornare sfruttando i tenui alisei padani. Per un sentiero ascoso, rurale, sobbalzavamo contenti massacrandoci il sottosella. Nei fossi freschi di sorgiva gli insetti pattinatori ricamavano a punto e croce il pelo dell’acqua.