CHIARA ARCESI
Cronaca

Hugo Weber, guerra e pace: "Racconto storie di vita tra le rovine di Kharkiv"

Dalle sperimentazioni al liceo Kandinsky alle fotografie sul fronte in Ucraina "L’IA non distruggerà il nostro mestiere, lo cambierà. Saremo curatori".

Dalle sperimentazioni al liceo Kandinsky alle fotografie sul fronte in Ucraina "L’IA non distruggerà il nostro mestiere, lo cambierà. Saremo curatori".

Dalle sperimentazioni al liceo Kandinsky alle fotografie sul fronte in Ucraina "L’IA non distruggerà il nostro mestiere, lo cambierà. Saremo curatori".

di Chiara Arcesi

MILANO

Guerra e pace, due rovesci della stessa medaglia: la fotografia di Hugo Weber. Immagini, le sue, che senza mostrare la guerra riescono comunque a parlare di questo concetto esprimendo intrinsecamente tutta la loro complessità. Proprio come un giorno il fotoreporter Alex Majoli gli disse: "Per parlare al meglio di una cosa non devi mostrarla, se riesci a parlare di qualcosa senza mostrarlo allora hai vinto". Francese, vissuto a Milano, ora trasferitosi in Ucraina, il “fotografo di guerra” realizza immagini documentarie del contesto ucraino e non solo. Menzione speciale Grin, Gruppo Redattori Iconografici Nazionale, del premio Ponchielli 20WeWorld Festival. Il creativo, in occasione della sua presenza al prossimo WeWorld Festival, racconta un po’ di sé e della sua esperienza professionale in alcuni momenti toccanti.

Quale sarà il suo contributo al WeWorld festival?

"Presenterò delle immagini documentarie tratte da un lavoro chiamato “Kharkiv - Among the ruins” che racconta il quotidiano dei suoi abitanti e della loro resilienza attraverso le attività realizzate da Weworld. Khakirv è una città pesantemente danneggiata dall’invasione russa perché molto vicina al confine".

Dal 2019 fotografo a tempo pieno, curatore, post produttore e produttore esecutivo e allestitore di mostre, per grandi istituzioni internazionali. Come nasce la sua passione per la fotografia?

"Nasce un po’ per caso. Mia madre era fotografa ma non trovavo interesse nella pratica soprattutto nell’aspetto digitale della fotografia che trovavo troppo semplice. Il 2011, quando frequentavo il liceo professionale di grafica Iss Kandinsky a Milano, era un periodo di transizione tra analogico e digitale; siamo stati gli ultimi studenti a fare le lezioni di analogico e mi è piaciuto tantissimo. La scuola doveva aggiornare le attrezzature in digitale e così ho potuto recuperare tutto il materiale analogico e sperimentarlo. Da allora non ho smesso".

Dal gennaio 2024 si è trasferito in Ucraina per realizzare un progetto fotografico documentario “Gli angeli di Nazareth” finanziato in parte grazie al ministero culturale italiano, riguardo alla condizione degli sfollati interni. Cosa ha immortalato?

"Ho voluto creare un ‘identità ucraina a partire delle rovine del mondo sovietico e dalla resilienza attraverso l’attesa e la speranza...".

Perché è innamorato della fotografia?

"Non sono innamorato della fotografia ma semplicemente dal raccontare storie, indipendentemente dal mezzo. Penso che per ragioni di accessibilità e del caso sono finito a fare il fotografo ma sinceramente sto già spostando la mia attenzione su altre cose, la prima è la restituzione della fotografia, attraverso una mostra o un libro. La seconda è il video, le installazioni che stanno prendendo sempre più posto nel mio modo di concepire i miei progetti".

Nel mondo dell’intelligenza artificiale quale senso conserva la fotografia?

"Mi farò molti nemici dicendo questo... sinceramente la trovo un’invenzione super stimolante e non condivido la visione “spaventata” di molti colleghi. Mi sembrano gli stessi discorsi che si vedono negli archivi televisivi agli inizi 2000 con l’avvento di internet. Penso sia uno strumento che cambierà il nostro mestiere e voglio sperare in meglio. Spero obblighi le persone a ragionare di più sul come usare i propri mezzi, facendo “prevalere” l’aspetto curatoriale della nostra pratica piuttosto che l’aspetto di scatto (che per quanto riguarda la mia opinione è 20% del lavoro dell’autore) e che spesso ci riduce a cercare shock value e la news rispetto alla qualità dei progetti".

Il suo lavoro si basa sull’intimità che crea con i suoi soggetti. Che esperienza è stata quella ucraina, dove non parlava perfettamente la lingua?

"Ho passato i primi tre mesi in una comunità che ospita sfollati interni costruita sulle macerie di una base segreta sovietica nucleare; quindi in mezzo al nulla e con internet in un solo punto della comunità. Gli ucraini sono molto pudici e spesso silenziosi, io invece sono piuttosto esuberante e logorroico. Il punto è che nessuno parlava inglese o italiano o francese quindi ho passato tre mesi a non capire niente né parlare ma semplicemente a fare foto e ogni tanto fare domande con Google traduttore. Ho scoperto mesi dopo che hanno molto apprezzato il fatto che fossi l’italiano più silenzioso che avessero mai visto allora... Ma ero solo silenzioso perché impossibilitato a parlare. Questo mi ha fatto capire l’importanza dei “non detti” e che la lingua spesso non è così importante".

Il momento in cui hai rischiato la vita?

"La prima mattina a Kharkiv è esploso un missile intercontinentale a meno di 500 metri da me. Al di là del rumore e della paura la cosa più strana è l’odore della polvere da sparo che avvolge le strade anche ore dopo lo scoppio delle bombe".

Una foto che meglio rappresenta la guerra e la pace.

"Un’immagine di una statua dedicata alla cristianità avvolta dalla neve scattata con flash. Anche se questo monumento non c’entra niente con la guerra o con il progetto dal punto di vista del contenuto formale, la metafora di un angelo, la statua, e dei fiocchi di neve bianchi che sembrano delle bombe, parla perfettamente del tema della resilienza e di questa guerra".