
Francesca Vecchioni
Milano, 9 agosto 2015 - «Milano non ti fa sentire mai meno di quello che sei». Lo racconta Francesca Vecchioni, giornalista e scrittrice. «Questa è una città che non discrimina, è aperta e pronta ad ascoltare».
Ha sperimentato sin da piccola questo clima di apertura? «Sì, sono nata a Firenze, sono cresciuta, invece, a Milano. Con mia madre abitavo in via Felice Casati, in una casa con un grande terrazzo che si affacciava su corso Buenos Aires. Nonostante l’altezza il rumore della strada arrivava lo stesso. Mi piaceva quel chiasso. Tanto che quando andavamo al mare non riuscivo a dormire perché c’era troppo silenzio».
Era una bambina instancabile? «Sì, da piccola trascorrevo spesso le giornate ai Giardini di Porta Venezia e mio padre cercava di continuo di farmi scendere dagli alberi. La mia infanzia a Milano è stata divertente, andavo in bici in Baires, anzi proprio in quegli anni ho sviluppato la mia percezione di questa città come un luogo pieno di caos ma anche di stimoli. E poi c’era Eva, la mia nonna paterna».
Cosa aveva fatto? «Anche lei ha contribuito a rafforzare l’idea, che poi è vera, di Milano come città amichevole e aperta. Abitava in piazza Repubblica e veniva a casa nostra sempre a piedi. Il tragitto era breve, ma lei ci impiegava almeno il doppio del tempo perché si fermava a salutare i negozianti e i conoscenti che incontrava. Ogni sua piccola uscita si trasformava in un grande evento perché poi ci raccontava con chi aveva parlato, chi aveva visto, le novità dei negozi. A Milano sono rimasta fino alle medie poi sono andata a Roma».
E’ stata molto nella capitale? «Dai 14 ai 19 anni. Milano mi mancava molto. Avevo sperimentato anche i primi tormenti d’amore. I miei ultimi anni milanesi li avevo trascorsi in via Vivaio, dove c’era la scuola media e mi ero innamorata della supplente di Lettere, una bella donna dai capelli biondo cenere. Ma lei pensava ad altro, per esempio alla data del suo imminente matrimonio e io nella follia buffa dei miei 12 anni mi indispettivo chiedendomi come mai fosse riuscita a resistermi. Meno male c’era mio padre che mi aiutava a distrarmi e andavamo nella mia zona preferita».
Qual è? «Quella che va da Melchiorre Gioia all’Isola e che oggi è indicata come ex Varesine e Porta Nuova. Mio padre mi portava spesso al luna park e quando passavamo sotto le arcate della Torre dei Servizi Tecnici Comunali, lui mi diceva che nel palazzo sovrastante c’erano tanti animali come nell’Arca di Noè e che di tanto in tanto si affacciavano. Dopo la pausa romana, sono tornata a Milano per fare l’Università e ho deciso di restare».
La via che rappresenta il suo amore per Milano? «La via Gaetano de Castilla. Quando c’era lo sterrato ci andavo spesso con mio padre che mi dava lezioni di guida. Ho imparato sulla sua 500 bianca. Per farla partire dovevo tirare su la levetta dell’aria e fare la “doppietta”, schiacciando due volte la frizione. Mio padre mi diceva: “Se impari a guidare questa, puoi guidare qualsiasi cosa”. Nella stessa via, poi c’era la leggendaria discoteca “Nuova Idea”. Era un ambiente trash e divertentissimo, dove ognuno poteva esprimere il proprio orientamento sessuale. Mi spiace che non ci sia più. Ma ora via de Castilla è uno dei simboli della nuova Milano, di quella che proietta la nostra città in Europa e in cui il nuovo non soffoca il passato. In questa zona ho trascorso i momenti più importanti e anche teneri della mia vita. E seduta su una delle sue panchine ho scritto il mio libro».
Parla di “T’innamorerai senza pensare” (Mondadori Electa)? «Sì, è il mio primo romanzo, in realtà è la storia della mia vita e quindi anche di Milano. E di quello che mi ha fatto capire: vai avanti con coraggio, senza piangere, ma spiegando chi sei e partecipando».
mchiavarone@yahoo.it