Expo, allarme terrorismo E la Guerra santa diventa anche un affare per donne

L’islamologa Vanzan: contro i valori delle madri di Luca Salvi

Donne islamiche alle prese con armi da guerra

Donne islamiche alle prese con armi da guerra

Milano, 1 marzo 2015 - Anna Vanzan, docente di Cultura araba all’Università Statale di Milano ed esperta di problematiche di genere, l’Expo è a rischio terrorismo? «È chiaro che il terrorismo utilizza le situazioni plateali per fare arrivare la sua voce forte e chiara. L’Expo potrebbe essere il luogo adatto per inscenare un attentato: avrà un pubblico internazionale e tanti Paesi presenti con i loro stand ufficiali, quasi delle succursali delle ambasciate o dei consolati. Ma i terroristi ci hanno abituato a colpire nel momento e nel luogo che meno ti aspetti, indipendentemente dai grandi avvenimenti».

Tra i fenomeni denunciati dall’intelligence, l’adesione agli attentati di familiari dei combattenti, donne incluse. «Un fenomeno in crescita in quanto i gruppi terroristici enfatizzano un protagonismo evidentemente negativo ma che più categorie di donne trovano estremamente interessante. E se una donna è legata sentimentalmente a un combattente integralista, ne condivide convinzioni e illusioni».

Cosa pensa delle “spose della jihad”? «I maggiori fornitori di donne “terroriste” sono per l’Occidente la Francia e per i Paesi a maggioranza musulmana, la Tunisia. Ovvero due nazioni considerate l’emblema dell’emancipazione femminile nei rispettivi continenti. La Tunisia fin dagli anni ’50 è stata all’avanguardia per le riforme a favore del mondo femminile. È stata anche il Paese che, nella prima fase della Primavera araba, ha portato a casa i maggiori risultati su questo fronte. Tante madri oggi si chiedono perché le figlie partano per una guerra in contrasto con i valori che hanno insegnato loro».

Quante donne tra i foreign fighters? «Si parla di 500, ma non ci sono statistiche precise né testimonianze dall’interno».

Come riescono i jihadisti a coinvolgerle? «Il marketing di questi gruppi terroristici è forte e trasversale. Propongono un modello di genere tutt’altro che allettante ma nella quale una donna può illudersi di sentirsi al sicuro. Un modello di ancella della famiglia, la cui vita è in funzione dell’uomo, un serbatoio per far figli che può diventare aguzzina. Si sono formati corpi di polizia femminile che controllano il comportamento e la moralità delle altre donne, condividendo una briciola del potere di stampo patriarcale. Un modello che ha poco a che vedere con l’Islam».

Si è parlato molto del caso di Maria Giulia Sergio, alias Fatima Az Zahra. Ci sono altre italiane tra le jihadiste? «Probabilmente sì, perché anche in campo maschile saltano fuori giovani terroristi italiani che si credeva impegnati in tutt’altra parte del mondo. Nel caso delle ragazze, è difficile che partano individualmente. Si viaggia in due di solito».

Cosa può spingere una ragazza italiana ad abbracciare la jihad? «È una scelta estrema, senza ritorno. C’è un fondo di protesta e la volontà di mettere in gioco la propria vita. Scegliendo una via di distruzione. È ridicolo se non tragico che il sedicente Califfato dimentichi che, nella storia, l’epoca dei califfi si stata un’epoca di costruzione di cultura, di ponti con le altri religioni, uno dei periodi più aurei del mondo musulmano. Loro invece propongono ricerca del potere e distruzione dei simboli delle altre culture, come si è visto nella distruzione delle statue legate a riti antecedenti all’Islam. Che ci ricorda quello che fecero i Talebani con la statua del Buddha».