
Giacomo Perego (Ambrosianeum): "Ho avuto la fortuna di stargli accanto. Volevo raccontare, oltre agli aneddoti, la sua figura di prete ribelle per amore".
Milano – "La libertà? È anche “sporcarsi“ le mani, con coraggio, non è qualcosa che si possiede per sempre, ma da conquistare. Questo, per me, è attualizzare il messaggio di don Giovanni Barbareschi (11 febbraio 1922 - 4 ottobre 2018), prete della Resistenza, ribelle per amore". Giacomo Perego, 35 anni, è autore del libro “Siate liberi! Vita e resistenza di don Giovanni Barbareschi“ (Ancora editrice), segretario generale della Fondazione Culturale Ambrosianeum, cattolico praticante, che unisce all’impegno professionale l’impegno politico (nel Pd) come assessore alla Cultura del Municipio 4. Papà di Margherita e di Ilaria (di appena due mesi) ha conosciuto don Giovanni Barbareschi nell’autunno del 2003, e al loro primo incontro ne sono seguiti molti altri fino alla morte di Barbareschi. Che fu, ricordiamo, prete partigiano, incarcercato 23 giorni (a partire dall’agosto 1944) e torturato a San Vittore, salvatore di oltre duemila vite umane su per la Valle Spluga e poi medaglia d’argento della Resistenza, Ambrogino d’oro, Giusto a Monte Stella.
Perché ha sentito la necessità di scrivere questo libro? Non si conosceva abbastanza l’opera di don Barbareschi?
"Desideravo andare oltre gli aneddoti che circondano la figura di don Giovanni, e storicizzarla, con la ricerca di documenti inediti che potranno interessare gli storici. Questo è fare memoria, non commemorare il passato ma guardare il futuro, dare una direzione. La memoria è occasione di conoscenza. Vorrei che molti giovani possano avvicinarsi a questa figura come io ho avuto la fortuna di fare negli anni della nostra amicizia. Per me è stato un maestro di vita".
Il libro getta una luce nuova su uno dei personaggi più importanti della Resistenza milanese. Quali sono gli episodi, fra i tanti, che ama ricordare?
"A me piacebbe ricordarlo con le sue stesse parole. Quando gli chiedevo di raccontarmi episodi della sua vita partigiana mi ricordava i mesi trascorsi in montagna, come cappellano dei partigiani, giovani come lui. Stare lassù in montagna, e fare la Resistenza, aveva significato moltissimo. Perchè la morte poteva giungere in qualsiasi momento, quindi si era obbligati a vivere in profondità la vita, non ci potevano essere ambiguità. Lui lo classificava come il valore del rischio. Oggi la gente non rischia più nulla, tutto è omologato. A me ha lasciato un grande senso di libertà, libertà in senso assoluto, con la fede, con le istituzioni, liberi vuol dire “essere capaci di condurre la mia canoa“, diceva don Giovanni citando Baden Powell".
Fra le pagine più belle, del libro, come sottolinea il teologo Vito Mancuso, c’è quella del ricordo di don Barbareschi e della sua finta fucilazione...
"Per lui al momento era vera, non sapeva che i fucili dei soldati sparavano a salve e dice: "Se voi mi domandate qual è stato per me un momento di felicità, vi sembrerà strano, ma vi dirò che è stato quando le SS mi hanno messo al muro (...) io ero felice, felice perché capivo che la mia vita aveva un senso...“. C’è, poi nel libro, tutto il racconto delle peripezie per salvare Carla, la moglie di Guido Ucelli di Nemi, il fondatore del Museo della Scienza e della tecnica; dal tentativo, finito male, di corrompere un fascista di stanza a San Vittore sino alla sparizione di documenti compromettenti, ingoiandoli, don Giovanni racconterà poi che la parte più difficile da eliminare erano stati i due pezzetti di ferro che tenevano la fotografia della carta d’identità!".
E oggi?
"Se penso alla mia esperienza politica, ciò che manca oltre al coraggio, è lo sguardo di futuro, il coraggio della verità. Si ripetono slogan, nella maggioranza come nell’opposizione, viene prima l’idea del dato di realtà. La verità non è una categoria politica né una categoria dell’elettorato. Il messaggio di don Giovanni, in un città come Milano, è un invito a riscoprire il valore della relazione intergenerazionale . La frattura non è più fra centro e periferia. La dicotomia è generazionale, fra giovani, compresi i nuovi milanesi, giovani di seconda e terza generazione, nati da genitori stranieri, e quelli che hanno radici più antiche. Spiace dirlo, ma nonostante l’attrattività e un indice demografico che suggerirebbe il contrario, non è una città né per giovani né per famiglie; una città respingente, io stesso sono un gentrificato, sono in affitto e come molti coetanei non riesco a comprare casa in città. Pensare che quando ero piccolo Porta Romana era un quartiere di piccola e media borghesia, popolare, con famiglie che avevano un padre o un parente in galera. Vivo sulla mia pelle alcune delle tensioni del mondo giovanile in città, i giovani non si sentono parte di un discorso più ampio".
Pensa di candidarsi in futuro, di continuare a fare politica?
"Non sono in grado di rispondere a questa domanda ma le posso dire che sono al secondo mandato e sono sempre stato incoraggiato, in primis proprio da Barbareschi. Lui aveva una visione molto nobile ma molto pratica dell’esercizio politico, bisogna mischiarsi con le cose del mondo non ti puoi tirare indietro. Lui non ebbe paura di sporcarsi le mani, anche mettendosi a rischio".
E l’episodio di Montanelli che gli dedicherà uno dei suoi libri?
"Su richiesta del cardinale Schuster, don Giovanni farà uscire dal carcere tre antifascisti e fra questi Montanelli che con documenti falsi verrà accoampagnato al confine svizzero, in salvo".