
Davide Oldani, 57 anni, allievo di Gualtiero Marchesi
Milano - “Ogni stagione ha un piatto diverso e un progetto nuovo: osservo quello che mi circonda, parto dalle esigenze del quotidiano e disegno per metterle a terra”.
Parola di chef Davide Oldani, creatore della “cucina-pop“ e designer. Nel 2003 ha aperto il suo primo D’O a Cornaredo, paese della cintura milanese dov’è cresciuto, seguito poi da un nuovo D’O nel 2016 (due stelle Michelin più una stella verde) e dal ristorante Olmo, che ha già festeggiato il primo anno di vita con una stella Michelin. Oggi alle 17 Oldani sarà allo Ied di Milano, in via Sciesa, con il designer Attila Veress per un talk sul “Gusto formale“.
Quanto design c’è nel cibo e quanto il mondo del food impatta sul design?
“Design è una parola importante. Nel cibo è nella forma e nel gusto del prodotto. Ed è la stagione a dare design al cibo. L’altro fattore è invece il design dei prodotti: mi piace disegnare tavoli, sedie, posate per grandi brand come Cassina, Artemide, Kartell e Riva 1920. In questo caso è il contenitore che valorizza il contenuto, che dà un valore aggiunto al cibo”.
Qual è il “pezzo“ che ha progettato che più la rappresenta?
“Ce ne sono un’infinità. Sono arrivato a 95, 96 pezzi. Dalle luci ai piatti, agli ultimi bicchieri per Cassina. In tutti c’è un’idea di fondo: il design deve essere funzionale a quella che è l’esigenza, ciò di cui abbiamo bisogno”.
E quali sono le esigenze più curiose alle quali ha dovuto rispondere?
“Sono quelle che abbiamo tutti quando ci sediamo a un tavolo: poggiare la borsa, gli occhiali e il cellulare, per esempio. Così ho progettato tavoli e sedie per utilizzare quello che ci circonda”.
Per migliorare l’esperienza-cibo?
“No, proprio per utilità. Dobbiamo mettere il più possibile comode le persone. Penso anche a Passepartout, la posata che svolge tre compiti facendo contemporaneamente spazio sulla tavola ed economia sull’acqua utilizzata per il lavaggio”.
Quanto è importante però l’aspetto estetico?
“La bellezza è soggettiva. Amo circondarmi di cose belle, ma non concepisco un bell’oggetto che non sia anche funzionale”.
Quanto tempo dedica alla progettazione dei suoi piatti?
“In ogni stagione progetto nuovi piatti e nuove idee, che metto alla prova per proporli nella stessa stagione dell’anno successivo. È un ciclo che si ripete. I prodotti restano: sto lavorando con l’asparago, il crescione e le fragole. Cambiano le tecniche”.
Quanto è importante il concetto di errore anche in cucina?
“L’errore è nell’inconscio: se si adotta il criterio di responsabilità e si pensa di far bene il margine di errore si riduce. Io penso che l’errore ci possa essere, basta saperlo affrontare e soprattutto non ripetere lo stesso identico errore”.
Ce n’è stato uno suo dal quale è nato un risultato ancora più forte e sorprendente?
“Non vivo nelle fiabe. È vero che può succedere, ma nelle storielle di alcuni grandi del mondo. Io invece sono un centrocampista di spinta, un mediano che lavora e che con il lavoro va, pensa, progetta”.
Metafora non casuale, visti i precedenti da calciatore. Quando ha capito che Davide Oldani era diventato il famoso Davide Oldani?
“Per me in realtà “successo“ significa far sì che le cose succedano, accadano. E sono felice quando succede perché significa metterle in pratica. È importante essere riconosciuto per quello che facciamo al ristorante, per come accogliamo le persone. Sono i punti cardini del mestiere, contano di più”.
Gli chef sono sempre di più sotto i riflettori, c’è un boom mediatico, un inseguirsi di trasmissioni da Masterchef in poi. Ha fatto bene al settore o ci sono effetti collaterali?
“La mediaticità serve, bisogna fare in modo che sia gestita nel miglior modo possibile e capire quello che può danneggiare e quello che fa bene. Le trasmissioni secondo me servono, ti danno l’opportunità di sapere cose in più. Poi uno sceglie se guardarle o no, se le trova utili o meno”.
E con i social come la mettiamo?
“Bisogna esserci, dicono: in fondo il web è una vetrina. Una vetrina che fa intravedere però. Per vedere bisogna entrare”.
Intanto insegna, è stato invitato come “case history“ ad Harvard, poi alla Università di Business parigina Hec e alla Bocconi. Ha contribuito all’apertura di una scuola, incontrerà i giovani dello Ied. Quanto è importante questo ruolo più educativo nella sua carriera?
“È fondamentale per me incontrare i giovani, anche perché in realtà sono loro a dare tantissimo a me. Basta lasciarli parlare: sono un’ottima fonte di nozioni, di concetti più moderni e anche di mondi che non conosco e dai quali possiamo tutti attingere”.