"L’università deve tanto a Milano e Milano deve tanto all’università: la città ha avuto grande giovamento dall’incorporare brani di università che hanno dettato sperimentazioni e tendenze del nuovo abitare". A dirlo è Emilio Faroldi, architetto e prorettore vicario del Politecnico, con delega allo sviluppo e alla valorizzazione degli spazi.
Milano è una città universitaria a tutti gli effetti?
"Lo è diventata. La storia è recente se pensiamo che la più antica è il Politecnico, del 1863. Questa giovinezza ha avuto un ruolo nella trasformazione della città, con soluzioni più innovative rispetto a modelli anglosassoni, più chiusi".
Al di là dei campus, gli atenei hanno plasmato i quartieri.
"Sono veri attori urbani. E sono nelle condizioni di dettare linee guida per lo sviluppo tattico della città, riqualificando i propri spazi ma anche ripensando spazi pubblici. Non esiste quasi più la divisione tra campus e città. Anche a Città Studi, che nel 2027 compirà 100 anni, i corselli del campus hanno un nome, come le vie. Già allora c’era l’idea dell’adesione totale alla città: lo studente è cittadino, abita lo spazio campus come quello urbano, è educato dallo spazio".
L’architettura non è mai neutra.
"Ha una sua azione didattica anche sul comportamento delle persone, sul modo di capire i paradigmi della contemporaneità. Se pensiamo ai progetti in cantiere emerge il tema della sostenibilità ambientale ed energetica, dell’etica e della sicurezza, come quello della mobilità. Temi che lo studente apprende nella sua carriera universitaria".
Cosa manca a Milano per essere a misura di studenti? Per non farli scappare dopo averli attratti?
"Prima di tutto la città deve ricordarsi che avere una comunità di studenti che supera le 200mila unità - su una popolazione di un milione e 300mila persone - è un’opportunità. Vuol dire avere una comunità internazionale, aperta a modelli, culture. Gli studenti sono un bel termometro: se lamentano la mancanza di residenzialità a prezzi calmierati è un problema che va affrontato in modo sinergico e non riguarda solo loro. E non bisogna pensare che ci sia il centro e una periferia lontana: bisogna aumentare la qualità della vita anche lì. E abbattere le barriere non solo fisiche, rispondendo alle nuove criticità, più silenziose, e al benessere psicofisico".
Che contributo possono dare gli atenei?
"Sul tema delle residenzialità stiamo facendo molto, partecipando ai bandi nazionali ed europei per ampliare i posti letto. Dobbiamo progettare bene il campus, manutenerlo e implementarlo con nuove strutture, perché studiare oggi è diverso rispetto ad anni fa. Non si viene solo a far lezione, l’università si vive tutto il giorno: gli spazi di socializzazione e relazione sono importanti quanto quelli dedicati alla didattica e alla ricerca. Quindi, bene le aule, ma il lavoro fatto negli ultimi anni si è concentrato sugli spazi comuni, condivisi, integrati, per rispondere un lavoro sempre più dialogico e collettivo, come pure sul verde, su servizi che una città evoluta deve offrire".
Sempre più spesso aperti h24.
"Non è un invito a studiare fino a notte fonda e a non staccare mai, evitiamo malintesi. Dare la possibilità a chi viene da fuori e non ha servizi facilitati di avere un luogo dove ritrovarsi con orari amplificati permette una migliore gestione dei propri tempi. Del resto i ritmi di lavoro sono sempre più fluidi".
Rispetto ad altri campus all’estero, si sono sempre reclamati più metri quadri per studenti. Qualcosa sta cambiando?
"Sì, e non è solo un problema di metri quadri. Si stanno ripensando spazi esistenti per farli vivere di più. Si stima che in ateneo ci sia un 30% di spazi sottoutilizzati: lavorare su quelli è come un ampliamento. Come Politecnico abbiamo dato anche incentivi e premi ai dipartimenti che condividono e ottimizzano i locali e sperimentano formule nuove".
Dalla Barona alla Bovisa gli atenei hanno cambiato il volto di molte periferie: una ricetta che funziona?
"Per dimensioni e impatto culturale hanno una forza d’urto tale da occupare anche zone dismesse, sono un elemento di rigenerazione urbana e sociale. Insediare le università in zone fragili è sempre stata una scelta vincente anche se ha bisogno di un tempo di sedimentazione: i benefici non si vedono nell’immediato. Il decoro porta il decoro. Gli studenti cambiano nome ma tutti gli anni hanno sempre la stessa età: è un fenomeno magico".
Si.Ba.