Andrea
Maietti
Don Luisito Bianchi (1927-2012), cappellano dell’abbazia di Viboldone. Un caso letterario col suo romanzo “La Messa dell’uomo disarmato“. Ripesco in un suo volumetto di liriche il motivo del suo nome spagnolo: "Mio nonno lo chiamavano spagnolo perché migrò ventenne in Argentina; mi dava lippe, piume d’usignolo e il nichelino per la parigina". La parigina (come si chiamava il cono gelato, fino a ieri), lusso dei poveri abituati al sobrio rito della polenta: "Con la polenta nonna ci allungava fette di pace come un sacramento". Conosco bene quella polenta e quella parigina. Hanno accompagnato i miei anni di povero, contadino a mia volta. Quando il Natale portava dolcezze. Quel Natale che non torna più, forse perché non sono più povero abbastanza. Pensiero che mi viene dalla rilettura di un altro prete, don Lorenzo Milani. Il libro, “Lettera a una professoressa“, mi ha accompagnato per gran parte dei miei anni di uomo di scuola. Riapro il libro a caso e leggo: "Fra i laureati i figli di papà sono il 91,9 %, i figli dei lavoratori dipendenti l’8,1%. Se i poveri facessero gruppo a sé, potrebbero significare qualcosa. Ma non lo fanno. Anzi i figli di papà li accolgono come fratelli e gli regalano tutti i loro difetti". La “lettera“ fu pubblicata nel 1967, il mio primo anno di insegnamento. La portai con me in una scuola di ricchi: per insinuare in loro qualche nostalgia del bello di essere poveri. Dicendo loro di non illudersi: che i ricchi potevano essere anche più poveri dei poveri. Ah, il dubbio di aver dato loro un alibi per restare tranquillamente ricchi.