
Andrea Petino lavora da 15 anni come fisioterapista con gli anziani
Milano, 17 aprile 2020 - «Le giornate trascorrono in un lampo e allo stesso tempo sono infinite: è difficile sopportare il peso di veder morire persone alle quali fino a poche ore prima avevamo stretto la mano". Giorni di angoscia, lacrime, duro lavoro ma anche speranza, perché "due pazienti ultraottentenni sono guariti". Andrea Petino, fisioterapista di 43 anni e delegato Cgil, è uno degli operatori in prima linea in una delle strutture per anziani, la Rsa Golgi Redaelli in via Bartolomeo D’Alviano a Milano, dove è dilagato il contagio. L’ultimo bollettino segna 40 morti Covid accertati fino al 14 aprile a Milano, altri 8 ad Abbiategrasso fino al 10 aprile, 7 a Vimodrone più 11 sospetti. Ma il numero, considerando i casi non accertati, potrebbe essere molto più alto. Da un mese e mezzo Andrea non vede il figlio di 9 anni, che vive in Campania. I suoi contatti, oltre al lavoro, si limitano alla compagna, anche lei dipendente della struttura.
Come si articola il vostro lavoro? "Noi fisioterapisti fino a Pasqua abbiamo dato una mano agli operatori socio-sanitari, abbiamo pulito e imboccato i pazienti, perché tanti colleghi sono in malattia. Il periodo più nero, difficile anche umanamente, è stato due settimane fa. Adesso, almeno a Milano, si inizia a vedere una luce in fondo al tunnel. I dispositivi di protezione sono arrivati, abbiamo scontato però un ritardo gravissimo". Che cosa, secondo lei, non ha funzionato? "All’inizio il virus è stato sottovalutato a tutti i livelli. Il nostro settore poi è stato trattato dalla Regione come l’ultima ruota del carro: le persone nelle Rsa sono fragilissime, il contagio è letale. I dispositivi di protezione non arrivavano, le direttive erano confuse e contraddittorie. Il nostro laboratorio potrebbe essere usato per l’analisi dei tamponi ma la Regione non lo ha ancora accreditato. Abbiamo dovuto accogliere pazienti covid dall’esterno, il virus è entrato da noi proprio a causa di un paziente arrivato dall’ospedale. Tre colleghi in contatto con lui si sono contagiati. Una di loro, Rosaria Di Fabio, è morta. Aveva già patologie pregresse, in quei giorni non avrebbe dovuto lavorare". Che cosa le sta lasciando questa esperienza sul piano umano e professionale? "Mi lascia l’idea di essere fortunato a fare questo lavoro, di essere parte di un ingranaggio che sta lottando per aiutare le persone più deboli. Con i colleghi, poi, si è creata una vera squadra. E questo, in un mare di cose negative neanche immaginabili fino a poche settimane fa, è un aspetto positivo. Ho pianto quando ho saputo che pazienti con cui ero stato fino a poche ore prima erano morti. Con tutte le precauzioni abbiamo appena ripreso le attività motorie, e mi ha ripagato di tante fatiche la gioia che ho visto negli occhi degli anziani quando abbiamo aperto la palestra. L’inattività può fare gli stessi danni del virus". Come reagiscono gli ospiti? "I sentimenti, almeno tra chi è in condizioni di lucidità, oscillano dalla paura fino alla noia e alla speranza. Poi ci sono i “superpazienti“, che continuano a fare gli esercizi. Noi cerchiamo di tenere tutti in contatto con i familiari attraverso le videochiamate. Come ha detto una collega, stiamo perdendo i nostri nonni. E di nonni non ce n’è mai abbastanza".