Milano, 14 luglio 2024 – L’ex professore del Politecnico di Milano Giuseppe Nano è stato condannato in via definitiva a risarcire all’ateneo 1,6 milioni di euro per le attività extra moenia fatturate tra il 2012 e il 2016.
La Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato dall’ingegnere 76enne, confermando il verdetto d’appello del 2023. A Nano sono state contestate 71 collaborazioni tecnico-scientifiche (quasi sempre come consulente tecnico di parte) per colossi industriali italiani e stranieri, effettuate nonostante il contratto a tempo pieno col polo accademico: da Hitachi Rail ad Ansaldobreda, da Edison a Ilva, da Luxottica a Eternit, fino a Pirelli, Marzotto, Tamoil, Bridgestone e Leonardo. Secondo i calcoli della Finanza, il docente ha incassato 298mila euro nel 2012, 274mila nel 2013, 389mila euro nel 2014, 382mila nel 2015 e 304mila euro nel 2016. Cifre pari a percentuali comprese tra il 79,8 e l’87,26 del totale dei redditi dichiarati.
Tradotto : l’attività secondaria valeva quattro volte quella primaria. La difesa ha sostenuto la tesi dell’ammissibilità degli incarichi, "atteso in particolare che non avrebbero richiesto l’iscrizione a un albo professionale, sarebbero stati espletati con carattere occasionale e in forma non organizzata e non avrebbero conseguentemente determinato l’espletamento di “attività libero professionale”".
Una tesi bocciata in primo grado, con condanna del prof a ridare tutto. In appello, la sentenza è cambiata solo nelle motivazioni: gli incarichi, presi singolarmente, avrebbero potuto "ritenersi astrattamente compatibili con il regime a tempo pieno, ma previa autorizzazione rettorale", mai chiesta. E veniamo alla Suprema Corte, che si è pronunciata martedì. Gli avvocati di Nano hanno sottoposto agli ermellini un fatto nuovo, sostenendo che i giudici di secondo grado non avrebbero tenuto conto del decreto-legge numero 44 del 2023 (varato tra i due verdetti), una norma interpretativa della riforma Gelmini del 2010 con "portata retroattiva" che avrebbe stabilito che "lo svolgimento dell’attività di consulenza è consentito “liberamente”, cioè senza necessità di previa autorizzazione".
Per i legali , la sezione d’appello non avrebbe preso in considerazione la nuova norma, creandone una per conto proprio che afferma che "l’attività di consulenza sarebbe soggetta alla previa autorizzazione dell’ateneo". Peccato, hanno dovuto prendere atto gli ermellini, che il motivo di ricorso appena esposto sia in definitiva la contestazione di "un errore di giudizio". Materia che valica i paletti imposti alla Cassazione per l’esame delle pronunce della Corte dei Conti. Conclusione: inammissibile.