SERENA CURCI
Cronaca

Le code, la potenza dei bassi, le danze e la libertà: addio al Plastic, luogo magico e senza differenze sociali

Aneddoti e ricordi di chi ha vissuto serate indimenticabili nel tempio milanese della musica da ballare. “Qui le differenze sociali ed economiche venivano azzerate. Nessuno faceva caso alle celebrità...”

A sinistra Jovanotti al Plastic con uno dei fondatori, Lucio Nisi; a destra come è oggi; sotto, ai tempi della gloria

A sinistra Jovanotti al Plastic con uno dei fondatori, Lucio Nisi; a destra come è oggi; sotto, ai tempi della gloria

Milano, 5 settembre 2025 –  “La musica è finita, gli amici se ne vanno...”, cantava Ornella Vanoni nel ‘67. Certo, al Plastic si suonava tutta un’altra musica, eppure queste parole riescono a catturare l’amaro destino dell’iconico locale milanese che ha chiuso i battenti per sempre. Il tempio della musica underground saluta la sua città e un altro simbolo di una Milano che non esiste più. E così, con un post sui social, il Plastic ha ringraziato tutti coloro che, per oltre quattro decenni, hanno danzato tra le sue mura fino all’alba. Le motivazioni della chiusura restano ignote: il night club se ne va con la medesima allure di mistero con cui è stato in grado di mettere radici.

Un addio giunto come un fulmine a ciel sereno: in fin dei conti, il locale godeva ancora di una schiera di fedelissimi pronti a ballare fino all’ultima nota. E per molti di questi, il Plastic era molto più di un semplice club, era un’istituzione: “Appena ho letto la notizia mi sono sentito orfano di un’abitudine del sabato sera che mi ha accompagnato dagli anni dell’università fino a oggi”, racconta Andrea Caravita che, da tempo, gestisce la comunicazione per Moschino.

Per lui, infatti, questo luogo non era la classica discoteca del venerdì sera, ma era un uno spazio in cui la creatività poteva sprigionarsi senza filtri e censure: “Qui la moda era riconosciuta come arte e il ‘vestirsi’ non si riduceva a una semplice ostentazione sui social: era un atto rivoluzionario”, aggiunge Caravita.

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Jovanotti al Plastic con uno dei fondatori, Lucio Nisi

Ma c’è un ricordo che accomuna tutti gli habitué del Plastic: le code infinite per varcare la soglia di quello che era il cuore pulsante delle nottate milanesi: “Da ragazzi non era affatto facile farne parte – racconta Valentina Gallia, votata al Plastic da quasi vent’anni –. Ma quando il buttafuori, dopo ore al freddo, ti faceva cenno di entrare, ti sembrava di varcare la soglia del Paradiso”. Accedervi era una prova di forza: in tanti si accalcavano ai piedi della ‘scatola nera’ di viale Umbria – poi teletrasportata in via Gargano – sperando che fosse la loro serata fortunata. E chi non lo ha mai frequentato, ora, si pone la domanda: “Ma cosa c’era di così speciale dietro quella porta?”. Per molti ‘Plastic’ e ‘famiglia’ sono stati sinonimi per buona parte della loro vita. Tra questi la stand up comedian Daniela Losini: “Ho sempre considerato quel posto la mia casa: non dimenticherò mai il senso di appartenenza che provavo una volta entrata nel locale. Qui mi sentivo protetta e sempre qui eravamo tutti sullo stesso piano”.

Nel tempio della musica vigeva un’unica regola: chi entrava doveva spogliarsi di ogni pregiudizio e bias, perché al Plastic il concetto di ‘differenza sociale’ veniva sovrastato dal potere dei bassi che pompavano nelle casse. E così poteva capitare di danzare accanto a David Bowie, ai Depeche Mode – o a Dua Lipa, per chi di recente è passato per il locale – senza che questo suscitasse alcun clamore o reazione. “Non ho mai fatto caso ai “vip“ che frequentavano il Plastic: qui dentro eravamo tutti uguali e poi era troppo buio per vederli”, sorride la clubber Valentina Gallia. Quel che resta sono i ricordi di una grande famiglia di estranei unita da un passato condiviso sulla pista da ballo: “Non potrò mai scordare quando, a fine serata, partiva ‘Maledetta Primavera’ e la cantavamo a squarciagola – aggiunge Gallia –. Un rito collettivo, misto di commozione e liberazione. Eravamo stonatissimi ma per noi contava solo una cosa: essere felici”. Francesco Rapone – deejay al Plastic dal 2011 al 2014 – ha un altro ricordo impresso: “L’ultima sera in viale Umbria: non posso scordare le lacrime di chi assisteva alla chiusura”. Rapone ha lasciato la sua Torino e scelto di farsi ‘adottare’ dal Plastic. Si esibiva nella ‘mirror room’, l’iconica stanza degli specchi: “Per me suonare qui non era un punto di partenza, ma d’arrivo”. E la chiusura lascia ‘orfani’ non solo i frequentatori più assidui, ma anche una vasta generazione di deejay cresciuta tra le pareti del locale ideato da Lino Nisi e Nicola Guiducci; tra questi Stefano Fontana che nell’87 qui ha mosso i primi passi nella musica. Al Plastic ha iniziato a suonare e qui si è imbattuto in Keith Haring, Andy Warhol e David Bowie. Proprio l’incontro, o meglio scontro, con queste personalità gli ha consentito di cambiare la sua vita: “Volevo studiare ingegneria, sono finito a fare il deejay”, scherza Fontana.

E ricorda quegli anni come il periodo più folle della sua vita, una sorta di sogno lucido da cui non avrebbe mai voluto risvegliarsi: “Ai tempi conducevo due vite parallele: la mattina andavo a scuola, tra compiti e verifiche, la sera suonavo e chiacchieravo con i Depeche Mode”. Anche lui rimarca l’essenza del Plastic: l’azzeramento delle distanze sociali. “Questo era un luogo di cultura, scatola nera che vibrava di sapere. Qui era possibile discutere con le menti più affascinanti: se sono intellettualmente curioso devo tutto a quel periodo lì”.

Per oltre quarant’anni il Plastic ha creato mode e tendenze, con la naturalezza di chi ha la creatività nel sangue,perché in fin dei conti è sempre stato molto più di una discoteca: fucina di creatività e idee. E Stefano Fontana non ha dubbi: “Con la morte di Giorgio Armani la moda ha perso la propria stella polare, nello stesso modo la chiusura del Plastic ha creato una frattura nella club culture”.