
Don Alberto Vitali
Milano, 24 agosto 2019 - «Le principali vittime del clima d’odio verso gli stranieri che si sta diffondendo saranno gli italiani stessi – attacca don Alberto Vitali – perché quando passa l’idea che la solidarietà non è un valore, i destinatari di questo egoismo possono cambiare in un attimo. Oggi le vittime sono gli immigrati, ma fra dieci anni il problema vero saranno le pensioni insufficienti...». Don Alberto è responsabile della Pastorale dei Migranti e parroco di Santo Stefano Maggiore, chiusa dall’81 al 2003 per mancanza di fedeli e oggi parrocchia personale dei migranti.
Paradossale che una chiesa centrale nella storia ambrosiana sia stata riaperta grazie ai migranti?
«Cattolica significa universale. Sant’Ambrogio era tedesco figlio di romani, venuto per fare il prefetto, qui ha battezzato Sant’Agostino, che era un migrante dall’Africa venuto in città per studiare. L’accoglienza è nel dna di Milano. Il problema è che siamo miopi».
Nel 2016 affermò che le frontiere sono il frutto più maturo del peccato.
«Lo dice la Bibbia non io, al capitolo 11 del libro della Genesi, nell’episodio di Babele. Il vero peccato di Babele è la chiusura: il desiderio di darsi un nome e un’identità forti per costruire una città e chiudersi tra le sue mura, quando Dio aveva già detto due volte di disperdersi su tutta la Terra».
Eppure i rosari sono stati sventolati in nome di questa chiusura.
«Scene che mi fanno rabbia e tristezza. Sarebbe meglio che recitassero il rosario invece di baciarlo. Ogni cattolico sa che Dio ha un progetto universale sull’uomo. Più della metà dei migranti che arriva è cristiano, e sono tutti molto religiosi, al contrario dei cattolici oriundi che si dicono credenti e magari non vanno a messa e i sacramenti non sanno neanche cosa sono. I migranti non chiedono solo di essere aiutati economicamente, la richiesta più pressante che ci viene fatta è di poter celebrare».
E le loro celebrazioni sono molto più partecipate di quelle italiane.
«A Santo Stefano la catechesi dei giovani latini dura tutto l’anno. Il 14 agosto erano in 23. Altrove sarei stato contento di averli a gennaio 23 ragazzi. A messa domenica scorsa c’erano 350 persone, e durante l’anno sono il doppio».
Cosa insegna ai migranti?
«A capire che ora sono in una comunità diversa, quindi non devono reagire mai d’istinto a quello che gli viene detto. Hanno aneddoti divertenti sui fraintendimenti linguistici, come la signora che alla richiesta di andare a prendere il burro è uscita in giardino a cercare l’asino. Vale anche per la mentalità: prima di reagire è importante capire quello che vuol dire l’altro. Poi è importante che conoscano i loro diritti e non si facciano sfruttare da italiani o connazionali già inseriti. Qualche badante a volte viene e mi dice “la mia padrona”, “la mia padrona un corno” rispondo. Forse la cosa più difficile da far capire ai migranti, preti compresi, è che la laicità dello Stato è positiva e non una forma di mancanza di fede».
Cosa insegnano ai fedeli italiani?
«La partecipazione comunitaria. Durante gli scambi della pace tutti vanno a cercarsi, durano 10 minuti, a me spariscono i chierichetti dall’altare e li rivedo alla fine della comunione. A una messa italiana lo scambio della pace è come dar la mano al direttore della banca. Da noi la fede si è ridotta a una dimensione individuale, e si è persa quella comunitaria».