
Cascina Spiotta e, nel riquadro, l’appuntato Bruno D'Alfonso
Milano – Bruno D’Alfonso, uno dei tre figli dell’appuntato dei carabinieri ucciso 50 anni fa dalle Brigate rosse nel blitz alla Cascina Spiotta per liberare l’imprenditore vinicolo Vittorio Vallarino Gancia, in una pausa dell’udienza esprime tutta la sua “delusione” per i silenzi dell’ex brigatista Massimo Maraschi, l’unico ad essere stato finora condannato, nel 1978, per quell’episodio.
“Considero un’ingiustizia – spiega – il fatto che gli sia stata concessa la facoltà di non rispondere, sfruttando un cavillo. Anche umanamente, mi sarei aspettato un atteggiamento diverso”. Guido Salvini, ex magistrato e legale di una figlia della vittima, parla di un rifiuto “poco comprensibile sul piano giuridico e anche sul piano civile”. Il lodigiano Maraschi, che fu arrestato per avere tamponato un’auto il giorno precedente il blitz nell’Alessandrino in cui morì anche Mara Cagol e si dichiarò prigioniero politico, avrebbe potuto rivelarsi un testimone chiave nel nuovo processo sul sequestro orchestrato dalle Br e sulla sparatoria finita nel sangue, con imputati l’ex brigatista Lauro Azzolini e gli ex capi storici Renato Curcio e Mario Moretti.
Ma ha scelto di non rispondere, una facoltà concessa dalla legge in quanto già condannato per lo stesso delitto, ossia i fatti della Spiotta. “Non intendo rispondere”, ha ribattuto alla maggior parte delle domande del pm Emilio Gatti e dei legali delle parti civili, gli avvocati Salvini, Nicola Brigida e Sergio Favretto, che assistono i tre figli di Giovanni D’Alfonso. Maraschi, che nel 1975 aveva 22 anni, ha spiegato in aula di aver conosciuto Azzolini, che a sorpresa nelle scorse udienze ha ammesso la sua presenza alla Cascina Spiotta quel 5 giugno di mezzo secolo fa, “solo nel 1990 nel carcere di Opera, perché eravamo nella stessa cella. Di cosa parlavamo? Chi se lo ricorda, forse di storia perché Azzolini aveva quella passione”.
Ha collocato la sua conoscenza con Curcio e con Pierluigi Zuffada, uno dei primi terroristi della colonna milanese (era anche lui tra gli imputati ma nel frattempo è deceduto), sempre negli anni della detenzione, nel 1980 a Palmi. Ha ammesso un paio di incontri, a Milano, con Moretti. “Abbiamo parlato di altro, incredibilmente non di Brigate Rosse. Lei pensa ai carbonari, a sette segrete, alla massoneria – ha affermato seccato, rivolgendosi ai pm – ma all’epoca c’era un movimento di massa che faceva impressione, ci si incontrava con tutti”.
Una decina di anni dopo il suo arresto ammise il proprio coinvolgimento nella vicenda anche perché, come ha spiegato in aula, era un passaggio “richiesto dalla legge” nel percorso verso la “dissociazione” e i conseguenti benefici. “C’erano – ha detto – dei protocolli. Si partecipava ad attività preparatorie al reinserimento sociale. Nel 1989 mi fu chiesto di dichiararmi colpevole del reato che mi si attribuiva e lo feci. Era obbligatorio, richiesto dalla legge”.
Erano stati convocati come testimoni anche gli ex Br Franco Bonisoli e Raffaele Fiore, che parteciparono al sequestro di Aldo Moro, ma entrambi ieri erano assenti. Il primo ha comunicato che, com’è suo diritto da condannato, non vuole parlare. Fiore ha presentato un certificato medico. “Maraschi – ha spiegato Salvini – ha usufruito dello sconto di pena in base alla legge sulla dissociazione. Quello che gli si chiedeva non era di accusare qualcuno ma, tramite il ruolo da lui stesso ammesso, ricostruire meglio lo scenario del sequestro”.