VALENTINA RIGANO
Cronaca

Gli schiavi dei caporali: "Ricattati per lavorare"

Intermediari, permessi di soggiorno falsi e pochi euro per faticare nei campi. Le storie di chi è caduto nella rete per sostenere le famiglie nella povertà

L'operazione anti-caporalato alla StraBerry di Cassina de’ Pecchi

Abbiategrasso (Milano), 2 settembre 2020 - Il sogno di una nuova vita, la necessità di sostenere la famiglia rimasta in patria e poi il naufragio nel fiume di una vita fatta di interminabili ed estenuanti ore di lavoro mal pagate nei campi, debiti da saldare e nessuna via di uscita. Una nuova forma di schiavitù chiamata caporalato, per molti piaga del solo sud Italia, è realtà anche al Nord, soprattutto il Lombardia. A raccontarlo sono le inchieste della magistratura e le storie di due giovani uomini, tra i tanti salvati dall’associazione Lule di Abbiategrasso, nel Milanese, l’uno terrorizzato all’idea di denunciare la sua condizione, il secondo entrato nel programma di protezione della onlus. 

Sette anni tra i campi, senza una casa, un documento, una tutela, pur di spedire i soldi a moglie e figlia. È la storia di Modu, senegalese di 47 anni, in Italia da sette, arrivato con permesso di soggiorno falso «in aereo grazie a un contatto nel mio Paese», ha spiegato, «usando un permesso di soggiorno falso che ho dovuto restituire all’organizzazione e ho iniziato subito a lavorare, in Sicilia, raccolta pomodori per circa 16 ore al giorno e vivendo in un capanno per attrezzi». Ad un certo punto la proposta di spostarsi al Nord: «Il boss mi ha detto che qui avrei avuto migliori possibilità», ha spiegato Modu parlando del suo caporale, anche lui senegalese, «mi ha sempre fatto lavorare, non so se posso tradirlo». Un lavoro pagato in nero circa 5 euro l’ora, di cui a lui deve restituire la metà, senza casa, senza poter chiedere un permesso di soggiorno, ecco i regali del caporale di Modu. Come lui sono centinaia gli uomini e le donne vittime di imprenditori e propri connazionali senza scrupoli, tra cui cui Kalì, 23 anni, arrivato in Italia nel 2017 per sostenere a distanza i suoi quattro fratelli e la madre, una volta rimasti senza il capofamiglia. 

Su consiglio di un amico il giovane si è rivolto ad un «agente per l’estero», di fatto un commerciante di manodopera clandestina. Per il suo viaggio, lungo ed estenuante, anche lui con un permesso di soggiorno falso, Kali ha dovuto accettare un «contratto» per cui avrebbe dovuto risarcire 8mila euro al suo «agente». «Arrivati in Italia, eravamo in sette, ci hanno sistemato a Melegnano in un’abitazione dove eravamo solo uomini», ha raccontato, «mi dissero che avrei dovuto spostarmi a Cremona dove c’era urgente richiesta di mano d’opera per la stagione estiva». Ad agosto di tre anni fa il 23 enne ha iniziato a raccogliere meloni e angurie, sulla carta per 6,70 euro l’ora, 8 ore al giorno.

«Di fatto dovevo restituire 2 euro l’ora al mio caporale, un mio connazionale, e di ore ne lavoravo oltre 12», ha proseguito, «pagando 150 euro al mese per il cibo, oltre al debito per il viaggio, sul contratto impiegato solo quattro giorni al mese, il resto nero». Kali ha compreso che non avrebbe potuto aiutare la sua famiglia, così ha deciso di vendere braccialetti di sera per le strade di Cremona: «Lì ho incontrato gli operatori Lule che mi hanno salvato, ora spero nel futuro». «Queste persone vengono trattate come macchine per produrre, sotto il sole tutto il giorno, senza acqua e prospettive – spiega Marzia Gotti, coordinatrice della Lule –. Per loro esistono protocolli di protezione e di reinserimento. Lavoriamo in silenzio dando assistenza alle vittime di caporalato da quasi due anni».