di Silvia Lodi Pasini
Imparare le regole della boxe come atto propedeutico alla presa di coscienza che, anche nella società civile, occorre rispettare delle regole per non fare e per non farsi del male. Ovvero, la boxe come metafora della vita. L’ha capito Mirko Chiari, pugile professionista con all’attivo 104 match e che prima di dedicarsi allo sport ha avuto una breve esperienza come detenuto, e che non a caso ha inventato “Pugni Chiusi“: progetto rivolto ai carcerati per favorirne il reinserimento sociale attraverso lo sport, che dal 2016 lui stesso porta avanti pro bono nel carcere di Bollate con l’amico Bruno Meloni, coideatore e allenatore atletico, che come lui non percepisce un solo euro lavorando al recupero dei detenuti. Di quel che fanno e dei risultati che ottengono hanno parlato entrambi al Rotary Club Morimondo Abbazia, ospiti del presidente Maurizio Salmoiraghi e del socio Pierangelo Metrangolo. “Pugni Chiusi“ è rivolto sia ai detenuti sia alle guardie carcerarie, e prevede due allenamenti a settimana di un’ora ciascuno. "Perché nel pugilato bisogna incassare per ripartire – dice Chiari –. Un po’ come sbagliare prima di capire per poi riprendere la retta via".
Nato come progetto pilota di sei mesi, il corso è tuttora attivo con oltre venti atleti partecipanti, provenienti da quattro dei sette reparti del carcere di Bollate, metà dei quali di età compresa tra 19 e i 30 anni, con punte fino ai 51 anni. Numerosi i risultati conseguiti, tra cui una ripresa del percorso scolastico da parte di alcuni dei detenuti e percentuali di recidive inferiori al 20%. "Pugni Chiusi" ha ispirato anche l’omonimo docu-film girato da Alessandro Best (al secolo Migliore) ispirato dalla storia di alcuni detenuti di Bollate.
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