
Un ospite dello Scalo Farini
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Milano - All’orizzonte svettano i grattacieli di Porta Nuova. Sembra impossibile che dentro lo Scalo Farini, immenso, che attende la riqualificazione totale dei terreni e la realizzazione di un nuovo quartiere, a un passo dai binari esistano “le favelas“ dei clochard cinesi: baracche sparse, costruite alla bell’e meglio sotto ponti di cemento o in cima a cavalcavia che non portano più da nessuna parte. A vedere i rifugi di fortuna in primo piano e le torri sfavillanti sullo sfondo, simbolo della Milano che non si ferma, si abbracciano in contemporanea con lo sguardo due mondi distanti anni luce eppure vicinissimi nello spazio.
Nella miseria estrema vivono gli invisibili: si spostano a piedi attraversando rotaie, in bicicletta si infilano tra la vegetazione incolta per raggiungere "la città", come dicono, diretti alle mense o ai servizi di enti assistenziali così da potersi lavare e vestire con indumenti donati. Ne abbiamo contati una quindicina, uomini e donne, ma l’impressione è che siano molti di più. I riflettori su questo mondo degli ultimi si erano accesi lo scorso agosto, quando un senzatetto cinese era stato trovato senza vita in uno stabile fatiscente: a chiedere aiuto erano stati altri clochard ed era intervenuta la polizia. L’uomo era in avanzato stato di decomposizione, morto da chissà quanto tempo.
Si respira miseria ma anche tanta umanità: gli abitanti di questa baraccopoli si aiutano l’un l’altro e sono ospitali. Hai Lu, 52 anni, invita a entrare nel suo rifugio. In tasca ha la tessera di un centro di assistenza gestito da frati. "Io lavoravo in un ristorante - racconta - poi ho avuto un problema di salute e ho dovuto smettere". Cammina a fatica. "Il piede mi fa male", dice. La sua "casetta" ha una parte esterna, con mobili che ha recuperato in giro per la città e attrezzi per la pulizia. Fuori c’è anche la sua dispensa con verdure e un contenitore pieno di carne. Da quanto tempo vive lì dentro? "Da un anno", risponde.
Tra gli abitanti c’è anche "Mela", quarantacinquenne di origine filippina, che si è costruita la sua dimora sopra un vecchio cavalcavia, impegnandosi per renderlo un posto sicuro e accogliente: ai piedi della rampa di scale, dei pannelli simulano un prato. C’è un cancelletto, "per sicurezza", e in cima ai gradini il suo rifugio con pareti leggerissime, alcune di cartone, e una tettoia. Nella "zona giorno", una piastra per cucinare. Nell’altra stanza, il letto e un mobile di fianco, con una candela sopra. "Perché la corrente non c’è", sottolinea. "Lavoravo come badante prima che scoppiasse la pandemia, ma purtroppo la persona di cui mi occupavo è morta. Io mi sono trovata senza lavoro e senza casa in un brutto periodo. Però non sono sola: ogni sabato vengono dei volontari che mi aiutano". Ma non basta.
I cittadini del Comitato di via Calvino lanciano un appello alle istituzioni, "perché si intervenga prima che parta la riqualificazione dello Scalo. Bisogna trovare una soluzione per queste persone, che vivono in una maniera non dignitosa. Non ci sono solo i clochard cinesi ma anche di altre nazionalità, che popolano la zona, e nessuno di loro è stato vaccinato contro il Covid. Vivono in un mondo tutto loro, eppure sono a Milano".