ANNAMARIA LAZZARI
Cronaca

Anoressia, il dolore dietro il rifiuto del cibo: "La famiglia è decisiva, ma va aiutata"

Sandra Valenza porta l’esperienza di sua figlia (ora guarita) nel nuovo centro di cura “Nutrimente in terapia“, dove mamme e papà possono condividere tutto

Una riunione di ragazze alle prese con il disturbo alimentare

Milano - ​"L’esperienza di avere una figlia che soffre di disturbi alimentari è sempre drammatica. Il senso di solitudine e impotenza è molto forte. Gli amici che restano spesso non bastano. Altri fanno domande inopportune come chiedere il peso a cui è arrivata. Solo chi ci è passato può comprendere fino in fondo tutto quello che comporta questa malattia". A dirlo è Sandra Valenza, 61 anni. Da oltre due anni, dopo un percorso di formazione, è diventata genitore facilitatore dell’associazione Nutrimente che dal 2013 si occupa della prevenzione e contrasto dei disturbi alimentari. Il suo compito è organizzare i gruppi di auto-mutuo-aiuto tra madri e padri che hanno figli con un rapporto problematico col cibo. Lei conosce il loro dolore e smarrimento per averlo vissuto personalmente. Circa undici anni fa infatti a sua figlia che allora aveva 18 anni è stata diagnostica l’anoressia.

Come è successo?

"È iniziato tutto come un malessere latente, che nel giro di qualche mese l’ha portata a non mangiare più e a vivere chiusa in camera sotto ad un piumone, senza più la forza per uscire, andare alle superiori, vedere gli amici. Era debilitata, ha avuto problemi fisici ed è stata ricoverata all’Ospedale San Paolo dove ha iniziato ad essere seguita da un’équipe multidisciplinare che l’ha supportata fin dai primi anni dalla diagnosi, i più difficili. È un percorso graduale quello della guarigione, costellato di difficoltà e piccole conquiste, ma non bisogna scoraggiarsi. Come la malattia è la punta di un iceberg più grande, composto da tanti elementi che insieme formano una miscela esplosiva, anche il percorso di fuoriuscita è complesso e composito, da affrontare passo passo, con la psicoterapia e non solo. Da qualche anno mia figlia è guarita. Lo posso dire perché anche se ha passato dei momenti difficili – come quelli che costellano le vite di ognuno di noi – non ha avuto più ricadute. Ha studiato all’università. Oggi ha una vita sociale intensa, fa la psicologa e insegna anche yoga".

Qual è adesso il suo compito?

"Cerco di offrire agli altri un supporto attraverso la mia esperienza. La possibilità di condividere ciò che si prova senza timori e censure con chi davvero può capire, perché l’ha provato, può essere di grande aiuto. Un gruppo di auto-mutuo-aiuto è uno spazio protetto dove le mamme e i papà possono condividere le proprie difficoltà e affrontare insieme emozioni come il senso di colpa, la vergogna rispetto alla situazione e la difficoltà ad affidarsi a un percorso terapeutico. In genere ci si riunisce ogni 15 giorni per un’ora e mezza. I partecipanti sono 10-15 familiari. Le richieste sono sempre più numerose. Molti genitori ci dicono che il problema è sorto durante la pandemia. È chiaro che per un figlio o una figlia che ha già fragilità se non va a scuola e rimane sempre a casa certi pensieri ricorrenti sul cibo possono diventare ossessivi e la situazione può precipitare. Non offro soluzioni a portata di mano ma ogni volta trasmetto un messaggio in cui credo molto: dall’anoressia si può guarire. Se il lavoro del terapeuta è fondamentale nel percorso di guarigione, anche i genitori possono fare molto".

Cosa può fare esattamente la famiglia?

"Il rifiuto del cibo è sintomo di una sofferenza interiore molto grave. Bisogna affrontare questa situazione con grande delicatezza, confortare e cercare di capire il dolore che il proprio figlio sta provando. Limitarsi a chiedere perché non mangia è inutile, certe volte persino controproducente".