
A sinistra la formazione (14 calciatori a referto) del Watan Football Club che ha appena conquistato la promozione nella Seconda Serie danese. Sopra, un allenamento
MILANO – Cosa ci fa un ingegnere quarantenne dell’Atm di Milano sui campi sportivi nel cuore di Copenaghen? Strano ma vero, allena una squadra di ragazzi afghani. Di più: ha scritto una storia di pallone e riscatto. Perché l’integrazione può unire i popoli all’insegna dello sport, ed è quello che da qualche anno accade in Danimarca anche grazie ad un tecnico italiano. Succede infatti che dalle panchine delle giovanili lombarde (Romano Banco, Alcione, Masseroni, Buccinasco) Francesco Errante si è trovato a guidare un gruppo composto da rifugiati o figli di rifugiati provenienti da Kabul e dintorni (anche iraniani), per i quali il calcio è molto più di un gioco.

“Il club ha scelto di ingaggiare Francesco per un contratto a tempo pieno. La sua passione, dedizione e brillantezza strategica hanno già lasciato un segno indelebile. Benvenuto al coach Errante per questo emozionante viaggio”. Così i dirigenti del Watan (significa “Patria“) Football Club poco più di un anno fa annunciavano la promozione a tecnico della squadra del mister venuto da lontano. Non un avventuriero improvvisato che va all’estero nella speranza di una carriera in discesa e di facili guadagni. Ma un uomo di calcio vero, che ha ripagato la fiducia di chi ha creduto in lui arrivando a conquistare pochi giorni fa una grande promozione.
Mister Errante, da dove partiamo?
“La mia professione di ingegnere civile specializzato in trasporti per un’azienda che ha partecipate in Europa mi ha spinto nell’ottobre del 2022 in Danimarca, per un progetto della durata di tre anni e mezzo. Quando seppi del trasferimento decisi di mettermi alla ricerca non solo di una casa ma pure di una squadra di calcio, per passione e anche per riempire il tanto tempo libero che avrei avuto visto che era appena nato mio figlio e la famiglia sarebbe rimasta in Italia”.
Del resto qualche esperienza non le mancava...
“Vero, ho sempre giocato al calcio fra Promozione e Seconda Categoria. E all’età di 19 anni cominciai pure in panchina, dicendomi che non avrei avuto problemi, che ero già “l’allenatore in campo“. Ma in Danimarca era anche una necessità legata alla sopravvivenza, diciamo che sono un animale sociale”.
Lei arriva a Copenaghen e come trova una squadra?
“Cercai di capire sui social il modo per rendersi appetibile sul mercato danese. Una via era tramite la Federazione, poi trovai un portale su Facebook: si cercavano allenatori per le “Serie“ sotto le prime 4 Divisioni, le più importanti. Conobbi il presidente di una società di atleti curdi, mi propose una collaborazione ma dopo aver visto l’allenamento rinunciai. Però cominciai a guidare l’under 17 del BK Skjold. Facemmo un ottimo lavoro, fui confermato ma durante la pausa estiva... il “patatrac“”.

Chiamiamola svolta...
“In effetti... Mi ricontattarono i dirigenti della squadra curda per dirmi che un team afhgano cercava. Ci incontrammo, dissi però subito che a weekend alterni non ci sarei stato per motivi familiari ma iniziai la collaborazione partendo dalla Terza Serie. Discreto campionato ma non da primissimi posti. Quest’anno ci abbiamo riprovato, partendo fortissimo. Secondi e promossi nonostante un calo nel finale. Ed ora ci aspetta la seconda serie, che equivale alla nostra Prima Categoria”.
Ci parli del suo gruppo, non capita tutti i giorni di allenare ragazzi afghani...
“Sono eccezionali, grandi lavoratori e persone serie. Condividono un’identità comune e un passato difficile. Più vicini a comprendere il calcio con mentalità latina anche se è complicato nel periodo del Ramadan, perché allenarsi senza bere né mangiare tutto il giorno è durissimo. Il problema vero è un altro”.
Ci dica...
“Mi riferisco al sistema danese. Loro vivono il calcio in maniera blanda, come se fosse un nostro livello amatoriale: quindi si allenano quando vogliono, alcune squadre una volta sola a settimana. E poi le assurde regole della Federazione...”
Cosa c’è di tanto strano?
“Tanto per cominciare non si fa la “chiama“ prima della partita. Sa cosa vuol dire? Che si imbroglia come si vuole. Poi arrivi alla Quarta Serie e lì ci si conosce di più... La verità è che la Danimarca si basa sul concetto di fiducia reciproca”.
Altre anomalie?
“La stupidità di certe regole. Le squadre possono portare solo 14 calciatori a referto, quindi non c’è il portiere di riserva. E i cambi sono “volanti“. L’altra cosa più assurda è che il cartellino giallo comporta l’espulsione temporanea di 10 minuti”.
Ci saranno pure aspetti positivi...
“Certo. L’approccio della società al calcio. I campi sono pubblici e in perfette condizioni, nessuno ruba le porte o rovina le strutture. E poi è tutto più familiare, senza pressioni e maleducazione. Io addirittura portavo mio figlio in panchina. La soddisfazione piu grande è che ho messo il mio nome nella storia del calcio danese e del club e ho piantato la bandiera italiana in quella nazione. Fra 6-12 mesi andro via, li ho gia avvisati. Ma la gioia resta”.
Che futuro s’immagina?
“Al ritorno in italia mi prenderò una pausa per la mia famiglia. Ma non so se avrò voglia di mettermi indiscussione nel calcio italiano, troppa incompetenza, maleducazione e nessun riconoscimento. Non credo ne valga la pena”.