
Moro in prigionia
Milano, 9 settembre 2018 - Un fascicolo ricco di documenti originali ma vecchio 40 anni, con la stella a cinque punte delle Brigate rosse sulla copertina, spunta fuori due anni fa dall’intercapedine di un muro durante lavori di ristrutturazione al padiglione Granelli del Policlinico di Milano. E da lì, oltre ad un’indagine giudiziaria su eventuali lontani reati, parte anche una specie di viaggio a ritroso nel tempo fino all’epoca degli anni di piombo e del sangue a Milano e non solo. Il ferimento del leader dc Massimo De Carolis nel maggio 1975 rimasto senza colpevoli, i sospetti sulla giovane brigatista attiva in città Paola Besuschio, che alla Sit-Siemens di piazza Zavattari lavorava insieme al futuro capo delle Br Mario Moretti. E proprio il nome di Besuschio che si ritroverà, tre anni dopo, nell’elenco dei 13 terroristi di cui le Br volevano la liberazione per lasciare a loro volta libero l’onorevole Aldo Moro: a favore della brigatista, stando alle testimonianze, il provvedimento di grazia che il presidente della Repubblica Giovanni Leone sarebbe stato sul punto di firmare. Però non fu quella l’unica strada per una possibile trattativa...
Soldi, tanti soldi. Una montagnetta di denaro suddiviso in mazzette alte quasi mezzo metro, più o meno dieci miliardi di lire, coperta da un panno di ciniglia azzurra. Era sul tavolo di una stanza della residenza di papa Paolo VI a Castel Gandolfo. Il prezzo del possibile riscatto della vita dell’onorevole Moro. No, la possibile concessione della grazia a Paola Besuschio non fu l’unica fiche giocata dal “partito della trattativa” per tentare di salvare lo statista sequestrato.
Furono anche altre, nei giorni di prigionia del presidente della Dc, tra il 16 marzo e il 9 maggio di quel 1978, quarant’anni fa, le strade percorse da diversi personaggi legati a Milano nel tentativo di aprire una crepa nel “partito della fermezza” - Dc e Pci su tutti - contrario a qualunque patto con le Brigate rosse. Sempre su impulso del Psi craxiano un ruolo ebbe una figura molto nota e discussa come Raffaele (Lello) Liguori, proprietario del celebre Covo di Nord Est a Santa Margherita Ligure ma anche dello Studio 54 di Milano, imprenditore nel campo dei locali notturni e della musica, legami stretti - come lui stesso ha ricordato davanti all’ultima commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro - con Craxi e il suo entourage milanese da Claudio Martelli al sindaco Carlo Tognoli, al cognato del segretario e futuro primo cittadino Paolo Pillitteri. Liguori ha detto di essere stato incaricato dal partito di recarsi al carcere di Cuneo, in quelle settimane, per contattare riservatamente sia Francis Turatello, boss della mala milanese che lui conosceva dall’ambiente dei night, sia Renato Curcio, il fondatore delle Br - entrambi in quel periodo detenuti nella struttura piemontese - che Liguori doveva avvicinare perché passava per uno un po’ di sinistra, con una figlia che frequentava il centro sociale Leoncavallo e varie interviste rilasciate all’emittente della sinistra milanese Radio Popolare.
Spedizione fallita. Turatello - ha ricordato Liguori - a proposito di dove si trovasse il covo romano nel quale i brigatisti stavano tenendo prigioniero lo statista dc, si limitò a suggerirgli di contattare per un aiuto quelli della banda della Magliana. Curcio addirittura lo liquidò con uno sbrigativo «tanto lo so che non sei dei nostri...». Ma torniamo a Castel Gandolfo e a un capitolo a parte, quello sui tentativi paralleli messi in atto dagli ambienti vaticani. Chi davvero arrivò forse a un passo dalla possibile liberazione di Moro - grazie al pagamento di un riscatto - fu proprio la Santa Sede attraverso l’opera di un prete milanese molto noto: don Cesare Curioni, per trent’anni cappellano di San Vittore e nel ‘78 cappellano generale delle carceri, ruolo che ne aveva fatto una sorta di punto di riferimento imprescindibile per una possibile trattativa con i brigatisti. Quello che fece don Curioni, scomparso nel 1996, lo ha ricordato in più occasioni - ultima un’audizione davanti al magistrato Guido Salvini consulente della commissione Moro - monsignor Fabio Fabbri, che all’epoca era il vice di Curioni nella sua azione religiosa all’interno delle carceri, suo fedele segretario che lo seguiva un po’ dovunque e che oggi, 76enne parroco nel Senese, ricorda benissimo quel che seppe - e soprattutto vide - in quei giorni drammatici. Fabbri ammette di non aver mai saputo chi fosse in realtà l’intermediario delle Br con cui don Curioni fu lungamente in contatto. Ma racconta di aver visto personalmente, il 6 maggio ‘78 nella residenza vaticana di Castel Gandolfo, le mazzette di denaro messe a disposizione dalla santa Sede per il riscatto, circa «dieci miliardi di lire appoggiate sopra un tavolo e coperti da un panno di ciniglia azzurra». Ma può dire, il monsignore, da dove proveniva quel denaro? «Posso riferire che i soldi recavano la fascetta di una banca estera - ricorda il prelato davanti alla commissione Moro - precisamente israeliana di Tel Aviv. Del resto io conosco bene i caratteri ebraici. Il denaro era in una sala della residenza di Castel Gandolfo. Mi fu mostrato direttamente dal Santo Padre era una bella montagnetta alta mezzo metro. Questa somma, a quanto mi riferì don Curioni, fu ottenuta grazie all’impegno personale di un imprenditore israeliano che si occupava di pelletteria e di scarpe. Lo vidi due o tre giorni prima della morte dell’onorevole Moro», conclude il prelato. E perché il riscatto non venne poi pagato? «Monsignor Curioni mi ha sempre ripetuto che le Br si erano spaccate in due e all’ultimo momento aveva preso il sopravvento chi voleva la morte dell’ostaggio».