
Stefano Savi fu aggredito secondo gli inquirenti dalla coppia dell'acido per uno scambio di persona
Milano, 16 gennaio 2016 - «Non sono una madre coraggio, e la mia non è la casa del mulino bianco, perché le discussioni sono state molte. Io e mio marito siamo stati come la goccia che scava la roccia». Scavavano nella roccia di Stefano, Stefano Savi, e però lui - alle domande inesauste di un padre e una madre che cercano in qualche colpa del figlio la tragedia cadutagli addosso - non poteva rispondere. Non poteva immaginare perché il 2 novembre 2014, sotto casa e all’alba, dopo una serata in discoteca, «una sagoma nera e incappucciata» gli aveva bruciato, con una secchiata di acido, faccia, naso, orecchie, occhi. Non poteva addossarsi una colpa, Stefano. E ora sua madre, Patrizia Ferrandi, figura snella ed elegante, e il sorriso che resta intatto anche quando la voce si incrina per la commozione, viene di fronte all’undicesima sezione penale del giudice Elena Bernante, al processo ad Alexander Boettcher, a raccontare quell’incubo. Il tunnel di sfregi, operazioni chirurgiche, sofferenze e dolore - e quella scia di sospetti, dubbi, angosce.
Cosa poteva aver fatto Stefano per subire una feroce vendetta? Niente. Chi lo aveva aggredito non lo conosceva, e si è semplicemente, con la banalità delle anime crudeli, sbagliato. Chi lo ha aggredito (e ora c’è una sentenza che lo dice, almeno su Martina Levato e Andrea Magnani e che viene depositata dal pm Marcello Musso in udienza) cercava un altro incolpevole (Giuliano Carparelli), ma ha sfigurato lui. E Patrizia, e suo marito Alberto, non si davano pace, col figlio «fasciato come una mummia» e ricoverato per tre mesi al Grandi Ustionati di Niguarda. Che ne sarà della vita di un figlio, ora così cambiata, si chiede sua madre: «E io che non posso far nulla, al suo posto». Lui dietro, ascolta, ma la sua faccia migliora e ormai la mostra senza paura. «Mio marito e io abbiamo interrogato tutti i suoi amici. Siamo arrivati a pensare che all’interno del suo gruppo ci fosse qualcuno che si fosse comportato male. E oggi io mi pento di questo. Quando vedo gli amici di Stefano che da quindici mesi gli sono sempre stati vicini, che hanno annnullato vacanze, io devo chiedere loro scusa. Ci sono ragazzi più forti e maturi di noi adulti». La sua mano, stretta a pugno, si apre appena a mostrare un delicato rosario: «Oggi ho avuto un aiuto».
Gli amici di Stefano. Tutti qui. Chiamati a deporre dagli avvocati di parte civile Andrea Orabona e Benedetta Maggioni, testimoniano atti d’amore. Ulderico Loretucci, ristoratore e imprenditore, l’amico del “Giannone” e del “Divina”, racconta che nell’ottobre, con l’apertura della stagione delle discoteche, Stefano e i suoi amici erano spesso ospiti nel suo privè. Anche il 18 ottobre 2014. Lo testimonia anche il suo telefonino, la cui traccia va e viene, in quel giorno, in assenza e presenza di campo a seconda se è dentro, il Divina, o fuori a ricevere ospiti.
Il 18 ottobre è un giorno importante, per la parte civile Savi: è quello che il semi-pentito dell’acido, Andrea Magnani, indica per il sopralluogo che lui, con Martina e Alexander, fecero al Divina per individuare un ragazzo cercato da Martina. E se Stefano c’era, significa che Martina lo ha scambiato, data la forte somiglianza, con quel Giuliano Carparelli che voleva sfregiare per via del sesso mordi e fuggi. Ma anche il gruppo coeso degli amici di Stefano faceva le sue indagini. Lo racconta Federico Martini, per gli amici Povich: «Stefano è tra le poche persone davvero buone che conosco, credo non abbia mai fatto del male a qualcuno». Chi lo poteva odiare? Un aiuto, il 28 novembre viene dal Divina: «Un socio di Ulderico chiamò per dire che in discoteca c’era un ragazzo: raccontava di aver schivato un’aggressione con l’acido». Era Giuliano Carparelli. Il gruppo si precipitò da lui: la somiglianza con Stefano lasciava senza parole. Qualche tessera prendeva lentamente posto nel puzzle, e un’incredibile verità si ricomponeva.
di MARINELLA ROSSI