
Adilma Pereira Carneiro
Milano – Ombre inquietanti che si allungano dal passato. Nomi della malavita milanese che si intrecciano con la parabola criminale della mantide di Parabiago. Una vecchia storia che sembrava dimenticata e a cui oggi, a più di tredici anni di distanza, gli inquirenti stanno cercando di cambiare il finale. Ieri era in programma la convalida del fermo per omicidio di Maurizio Massè, 58enne pluripregiudicato ritenuto vicino al clan di ’ndrangheta Flachi della Comasina e ammanettato sabato dai carabinieri: stando alle indagini dei militari, coordinati dal pm della Procura di Busto Arsizio Ciro Caramore, l’uomo avrebbe ucciso tra il 9 e il 10 dicembre 2012 Michele Della Malva, assassino a sua volta e legato a una delle famiglie più potenti della Società foggiana. L’udienza è stata rinviata a oggi.
In sintesi, l’accusa sostiene che Massè avrebbe costretto l’ex cognato 42enne a ingerire un sacchetto di plastica pieno di cocaina, provocandogli un’overdose letale; l’avrebbe fatto, secondo la ricostruzione degli inquirenti, su mandato di Adilma Pereira Carneiro, che all’epoca era la sua amante e che ora è a processo per l’assassinio mascherato da incidente stradale del terzo marito Fabio Ravasio.
Quella sera, Massè, che era rimasto in buoni rapporti con il fratello dell’ex moglie, sarebbe arrivato alle 23 nella casa di Mesero dei due coniugi, che si erano sposati dopo essersi conosciuti nel 2006 in un’associazione per il reinserimento dei detenuti (entrambi lo erano all’epoca rispettivamente per traffico di droga e per duplice omicidio) e che hanno avuto tre gemelli. Nell’abitazione non c’è la donna, in ospedale per assistere i figli ricoverati per una bronchite, ma pare ci fossero i figli maggiori avuti da precedenti relazioni, Ariane e Igor Benedito.
Massè esce alle 5, proprio nei minuti in cui Della Malva inizia ad accusare un malore. A quel punto, i ragazzi che sono presenti nell’abitazione contattano Pereira, che li rassicura e dice che chiamerà subito il 118. In realtà, è stato ricostruito nelle ultime settimane, la telefonata ai soccorsi arriverà soltanto alle 10 del mattino, quando ormai per il quarantaduenne, trovato con la schiuma alla bocca e gli occhi sbarrati, non c’è più nulla da fare.
Adesso di quella morte, archiviata ai tempi come un malore, è stato accusato Massè, che proprio in quel periodo fu coinvolto in un’altra indagine guidata dal pm Paolo Storari. L’uomo finì in cella insieme al fratello del boss Pepè Flachi, Enrico, di cui era il fidato luogotenente, per una tentata estorsione ai danni di un imprenditore. Tutto inizia il 18 gennaio 2012, quando Massè si presenta nell’azienda di S.R., dicendogli di avere urgenza di parlare con Antonino Benfante detto “Nino Palermo”, che un anno e mezzo dopo, tra il 27 e il 30 ottobre, avrebbe assassinato a Quarto Oggiaro i fratelli Emanuele e Pasquale Tatone.
Il giorno dopo, Massè e Flachi incontrano Benfante e gli chiedono di fare da intermediario con R.; quest’ultimo, che lo fa lavorare nei periodi che trascorre fuori dal carcere di Opera, la prende male e gli dice di andare via, ma Benfante gli spiega di essere stato incaricato di “farlo ragionare”. La richiesta dei Flachi è chiara: R. deve rinunciare a un credito di 55mila euro che vanta nei confronti di un ristoratore che non ha finito di pagare i lavori di ristrutturazione nel suo locale. Il motivo? Don Pepè è diventato socio al 50% di quell’attività e non vuole grane. R., sulle prime, cerca di opporsi, ma poi la pressione degli uomini del clan si fa insostenibile: durante l’ennesimo faccia a faccia, Enrico Flachi gli dice in tono minaccioso che i suoi hanno già effettuato diversi sopralluoghi nei pressi della sua residenza e che hanno studiato giorno dopo giorno gli spostamenti dei figli.
Una settimana dopo, R. inventa di essere stato convocato dai carabinieri (a cui in realtà si è già rivolto), che gli avrebbero fatto un sacco di domande sui blitz di Flachi e Massè nella sede della sua impresa. Basta quello a far desistere i ricattatori: “Tanto devono provarla l’estorsione e mi devono portare davanti chi l’ha detto, io non ho fatto niente”, la chiosa di Massè.