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Coronavirus, il racconto della dottoressa Leonardi: è a capo delle Usca di Monza

La lecchese è coordinatrice delle Usca di Monza che curano a casa i pazienti che si sospetta abbiano il coronavirus

Francesca Leonardi

Lecco, 23 aprile 2020 – E' la dottoressa Francesca Leonardi, medico di 30 anni di Lecco, la comandante in capo delle Usca di Monza, le Unità speciali di continuità assistenziali istituite per monitorare e curare direttamente a casa i pazienti che potrebbero aver contratto il coronavirus ma non necessitano il ricovero o che sono stati dimessi. Al momento all'interno dei territori della provincia di Lecco e di Monza che fanno parte dell'Ats della Brianza sono 3 le Usca: a Lecco, Monza e Concorezzo. Contano in tutto 36 medici e 3 figure professionali di supporto.

“Generalmente quando arriviamo a casa dei pazienti cerchiamo inizialmente di ricostruire la loro storia clinica per capire da quando ci sono sintomi riconducili al coronavirus e se ci sono stati contatti con persone positive – spiega il giovane camice bianco lecchese -. Sentiamo comunque anche il medico curante per ulteriori indicazioni. Poi li visitiamo, misuriamo la saturazione dell’ossigeno nel sangue, auscultiamo i polmoni e valutiamo la deambulazione. A questo punto si parla con paziente e familiari, verificando la terapia. Il contatto con il medico di famiglia è necessario e imprescindibile”. “La principale paura dei pazienti con sintomi riconducili a Covid-19 e non sottoposti a tampone è ovviamente quella di essere positivi e spesso cercano una smentita anche se sono consapevoli che è impossibile – prosegue la dottoressa -. I pazienti positivi hanno paura soprattutto di poter contagiare i familiari, specialmente se in casa ci sono anziani o bambini. L’altro grande interrogativo è capire quando potranno tornare alla vita normale senza rischiare di contagiare nessuno. In moltissime persone appare evidente un elevato senso civico e di rispetto verso il prossimo: personalmente penso che preoccuparsi per gli altri sia l’unico modo per uscirne insieme”.

Un episodio è rimasto molto impresso al medico: “Vengo chiamata al domicilio di un paziente uomo di circa 70 anni con sintomi respiratori e febbre da circa 10 giorni, lui vive a casa con la moglie e il figlio – racconta -. La moglie e il figlio stanno bene, mentre lui ha già iniziato la terapia antibiotica da qualche giorno, ma le condizioni stanno peggiorando. Arrivo in casa con tutti i dispositivi e vengo guardata subito con aria scettica: ai familiari non è molto chiara la situazione, il Covid si è diffuso da pochi giorni e non è ben chiaro cosa comporti… Entro in camera e trovo il paziente sdraiato a letto… Dopo un primo approccio, inizio a visitarlo: la lassica polmonite bilaterale, la saturazione bassa... non ho inizialmente il coraggio di farlo deambulare perché il quadro è già chiaro e il paziente è da ospedalizzare. Sto cercando il modo in cui dirglielo quando all’improvviso lui mi guarda fisso e mi dice: ''Dottoressa lo so che ho il coronavirus… e so che devo andare in ospedale, ma tornerò a casa?''”. Il lavoro è quindi impegnativo, fisicamente e psicologicamente: “Quando arriva una segnalazione un medico ha paura, quindi è concentrato e preoccupato al tempo stesso. I pensieri in testa sono tantissimi: seguire le istruzioni per una vestizione corretta che non è così facile come può sembrare, trovare l’abitazione, cercare di non contagiarsi, ma al tempo stesso far tutto il possibile per aiutare il paziente, disinfettare i dispositivi. Le cose da ricordare sono molte sia da un punto di vista di protezione sia da un punto di vista medico. Ma l’aspetto che colpisce di più ovviamente è il dover limitare i contatti umani. Il dover cercare un modo indiretto per far capire la nostra vicinanza al paziente. Mai come ora ci si rende conto di quanto supporto possa dare una mano sulla spalla del paziente. Poi certamente, un po’ il pensiero di diventare noi stessi vettori coronavirus non ci abbandona mai”.

Anche la vita persone e familiare cambia. “ Ci sono colleghi che hanno deciso di traslocare e vivono ormai da mesi soli, altri abitano ancora con la famiglia ma la scelta non è stata facile – confida Francesca Leonardi -. Personalmente io vivo ancora a casa con mio marito che non ne ha voluto sapere di andarsene quando gliel’ho chiesto all’inizio dell’emergenza e che per questo lo ringrazio. Non so come farei senza: è un aiuto prezioso nella disinfezione tutte le volte che rientro in casa e un supporto psicologico e morale fondamentale. Ovviamente però tutti noi medici limitiamo i contatti con i conviventi, passiamo molto tempo a disinfettare tutto e resta forte la paura di contagiare le persone care. Penso che le Usca abbiano insegnato a noi sanitari a collaborare. Siamo tutti sulla stessa barca in questa situazione di emergenza mondiale e ognuno può dare il proprio contributo in forma diversa. Vi assicuro che dopo una lunga giornata passata a contatto con pazienti Covid-19 positivi, vedere un sorriso, ricevere un bel messaggio magari da amici o familiari lontani fa passare molta della stanchezza e dello stress accumulato”.