Lecco, sul Cerro Torre lungo la mitica via del compressore

Il nuovo capolavoro in libera del Ragno Matteo della Bordella con l'amico Silvan Schupbach di FEDERICO MAGNI

La scalata nella foto di Della Bordella

La scalata nella foto di Della Bordella

Lecco, 3 febbraio 2016 - Sul Cerro Torre lungo la mitica «Via del compressore». È il nuovo capolavoro di Matteo della Bordella, scalatore varesino che veste il maglione rosso dei Ragni di Lecco. In compagnia dell’amico svizzero Silvan Schupbach il climber del gruppo alpinistico lecchese è riuscito a ripercorrere la celebre via lungo la quale, nel 1970, Cesare Maestri volle a tutti i costi «fare sua» la cima simbolo della Patagonia. 

Di recente sono stati rimossi i chiodi a pressione piantati da Maestri con il famoso compressore (che finì anche per dare il nome alla via che percorre la parete Sud-Est della montagna). Quella di Della Bordella è la terza cordata a riuscire a passare di lì con uno stile pulito e veloce dopo David Lama e due sloveni.

«Prima volta sulla montagna più famosa di tutta la Patagonia, nel modo e nello stile a cui avevo sempre ambito, che avevo sempre sognato e voluto. Da Maestri a Lama, la storia dell’alpinismo mondiale per una linea, una via che è da sempre un mito per generazioni di alpinisti», ha commentato lo scalatore varesino rientrato a El Chalten. Un anno grandioso per il ragno che solo qualche giorno fa festeggiava sulla vetta del Fitz Roy, sempre in Patagonia, la prima ripetizione della via dei Ragni di Lecco.

Grandi salite con una sequenza mozzafiato in linea con la storia dei primi Ragni che, proprio in Patagonia, hanno scritto la storia dell’alpinismo. «Casimiro Ferrari lassù è orgoglioso di voi..», commentano gli amici. Cesare Maestri salì lungo la parete Sud-Est, portando con sé un trapano a compressore con il quale attrezzò circa 350 metri di parete con 360 chiodi a pressione. Non salì il celebre fungo che ricopre la vetta. «Non fa veramente parte della montagna», disse. Durante la discesa Maestri lasciò appeso il compressore all’ultimo chiodo. 

di FEDERICO MAGNI